La presunzione sulle partite Iva riserva effetti a dir poco paradossali

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La presunzione sulle partite Iva riserva effetti a dir poco paradossali

09 Maggio 2012

Riprende oggi, dopo la breve parentesi del voto delle amministrative, il confronto sul Ddl di riforma del mercato del lavoro. L’intenzione del ministro, Elsa Fornero, è l’approvazione in tempi rapidi. Ieri c’è stato il nuovo incontro tra i capigruppo alla camera di Pd, Pdl e Udc finalizzato all’accordo sulle modifiche del testo depositato al Senato. Oggi alle 15 è prevista la riunione della commissione lavoro e i relatori potrebbero presentare le modifiche concordate (gli emendamenti), su cui c’è massimo riserbo. Quel che si sa, per ora, è che si prevede di migliorare la riforma esclusivamente (purtroppo!) sul versante della flessibilità in entrata.

Tra le correzioni condivise una dovrebbe riguardare la stretta contro le “false partite Iva”. Si tratta, in particolare, dell’introduzione di una “presunzione di legge” finalizzata a contrastare quei rapporti di lavoro dipendenti mascherati da autonomi con apertura, appunto, di (false) partite Iva. Prevede, nello specifico, che le prestazioni lavorative rese da persona titolare di partita Iva sono considerate rapporti di co.co.co., salvo prova contraria del committente, quando ricorrano almeno due di questi presupposti:

1) collaborazione di durata superiore a sei mesi in un anno solare;

2) corrispettivo costituente più del 75% dei corrispettivi totali del collaboratore dello stesso anno solare;

3) possesso di una postazione di lavoro presso una sede del committente.

Dunque se ricorrono due delle predette situazioni, il rapporto (la partita Iva) viene ritenuto ex legge una co.co.co.. A questo punto, però, subentra un’altra necessità per la regolare configurazione del rapporto di lavoro. Trattandosi di co.co.co, per la sua legittimità è necessaria la presenza di uno specifico progetto: se manca (questo progetto) scatta la sanzione della conversione in rapporto subordinato; se c’è il rapporto diventa una co.co.pro. a tutti gli effetti.

Sono previste delle esclusioni ed eccezioni; tra l’altro la presunzione non si applica ai rapporti il cui contenuto è riconducibile ad attività professionali intellettuali per l’esercizio delle quali è richiesta l’iscrizione in albi professionali, nonché alle prestazioni sportive dilettantistiche.

All’applicazione pratica, la nuova presunzione riserva effetti paradossali. Per esempio, proprio con riferimento ai professionisti, ha l’effetto di erigere uno scudo a protezione dei falsi rapporti di collaborazione di professionisti con studi professionali. Per contro, nel caso di vera partita Iva di un consulente informatico o di un consulente aziendale, in quanto inesistente il relativo albo, la nuova presunzione penalizza il lavoratore poiché rappresenta un deterrente per la ditta cliente più importante. Infatti, se il consulente cura tre ditte, la A, la B e la C, delle quali la C liquida l’80% dei suoi guadagni, è probabile che una volta in vigore la riforma del lavoro, la ditta C decida di sciogliere il rapporto di consulenza per evitare di incorrere nella presunzione di co.co.pro. (potrebbe farlo anche per il semplice motivo di scrollarsi di dosso l’onere di fornire la ‘prova contraria’ che consentirebbe di mantenere in vita il rapporto di partita Iva).

La presunzione sulle partite Iva è l’esempio di quanto statalismo abbiano intriso il provvedimento di riforma il Governo dei tecnici che l’ha predisposto. Tale e tanto da superare lo stesso dirigismo mantenuto alto finora dalla giurisprudenza del lavoro: per qualificare un rapporto di lavoro di tipo subordinato o autonomo non rileverà più la natura delle prestazioni – ossia se il lavoratore sia per davvero soggetto al potere direttivo, organizzativo e disciplinare di un datore di lavoro (come vuole la cassazione, dai secoli dei secoli!) – ma il fatturato e la durata delle commesse di lavoro.

Stiamo insomma all’inverosimile: all’esacerbazione del diritto del lavoro.

«In Europa di quel tipo di lavoro (subordinato NdR) se ne trova sempre di meno proprio perché tra chi offre il proprio lavoro e chi ha i mezzi e i capitali per impiegarlo profittevolmente si frappone il diritto del lavoro, anziché il libero contratto, che invece prevale (con non pochi correttivi, in verità) nel vasto campo del lavoro “autonomo”. Il diritto del lavoro sarebbe, dicono, una fase infantile della giuridificazione del mercato del lavoro, da superare in nome di una maturità ormai raggiunta, che reclamerebbe la restituzione, al dominio della libertà contrattuale delle parti, delle diverse forme di lavoro subordinato o autonomo». Questo pensiero non è dell’ex ministro del lavoro, Maurizio Sacconi, né di Berlusconi o di Alfano. E’ di Massimo D’Antona (già consulente del ministro del lavoro Bassolino nel governo D’Alema), assassinato dalle Brigate Rosse il 20 maggio 1999.