La primavera tunisina diventa gelo con Israele

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La primavera tunisina diventa gelo con Israele

05 Luglio 2011

Nel “patto repubblicano” adottato venerdì scorso dalla commissione per la riforma politica della Tunisia, emerge esplicito il rifiuto a intrattenere rapporti diplomatici con Israele. Nel documento stilato dalla commissione, che sarà la base della nuova Costituzione, si stabilisce che lo stato tunisino sostiene la causa palestinese e respinge “qualsiasi forma di normalizzazione dei rapporti con lo Stato sionista”. Una clausola fortemente voluta dal movimento islamico Ennahda − ritiratosi il 27 giugno dalla commissione, contestandone la democraticità – e che è stata inserita nel patto non prima di aver creato disaccordo tra i membri del comitato.

Sembrano pertanto avverarsi i dubbi e le paure che regnavano a Gerusalemme durante la rivolta del popolo tunisino contro l’ex presidente Ben Alì. Il governo israeliano aveva manifestato la propria preoccupazione per il futuro delle relazioni tra i due Paesi, in particolare per il potenziale ritorno dell’islamismo al potere. In questo quadro va inserito il contributo di 20 milioni di dollari che il Dipartimento di Stato americano ha concesso lo scorso mese a supporto della transizione della Tunisia verso la democrazia. Il finanziamento è stato stanziato con l’obiettivo di “contribuire a redigere una nuova costituzione, rafforzare i partiti politici e i gruppi civici non di parte, sviluppare un quadro per elezioni libere ed eque, creare un sistema dei media professionale e indipendente e incoraggiare le riforme economiche”. Sarebbe rilevante capire se, nella previsione di tale contributo, gli Usa abbiano avuto modo di considerare la netta presa di posizione della Tunisia nei confronti dello Stato di Israele.

In un articolo sul Giornale di ieri, Magdi Cristiano Allam, premettendo che “in tutto il Medio Oriente sta crescendo il potere del radicalismo islamico che ha come suo primo effetto l’accentuazione dell’ostilità contro Israele”, sostiene che “la strategia finalizzata all’ascesa al potere di questi islamici radicali che fanno riferimento ai Fratelli Musulmani è sostenuta dall’Occidente, da intendersi come gli Stati Uniti e l’Unione Europea, in cambio della collaborazione per eliminare il terrorismo islamico jihadista, cioè di Bin Laden e dei suoi simili. In tutto ciò – conclude − chi sembra destinato a pagare il conto più di altri è proprio Israele”. Secondo questa interpretazione, i Paesi occidentali, in primo luogo gli Usa, chiuderebbero un occhio sulle decisioni prese dai governi nati dalla “Primavera araba”, in questo caso della Tunisia, riguardo ai (non) rapporti con Israele.

Sebbene anche in passato i rapporti diplomatici tra Tunisia e Israele abbiano registrato pesanti interruzioni – senza risalire alle tensioni degli anni ’50, basti ricordare il ritiro della rappresentanza diplomatica tunisina del 2000 – non appare di buon auspicio la volontà di esplicitare il rifiuto a intrattenere relazioni diplomatiche con lo stato israeliano in un “patto” che farà da fondamento alla nuova Costituzione. Si corre il rischio di inasprire ancora di più i toni che accompagnano il dibattito sulla questione israelo-palestinese, che ormai da tempo oscilla come un moto perpetuo ora verso una soluzione condivisa ora verso un nuova rottura. Un intervento da parte del presidente americano Barack Obama sarebbe in questo senso opportuno: non tanto in termini di moral suasion, quanto per avere più chiaro in mente quanto nella posizione degli Usa c’è di sostegno all’esigenza di democrazia dei Paesi arabi e quanto sia ricollegabile alla mera realpolitik.