La profezia di Berlin sull’identità del popolo d’Israele
16 Maggio 2007
In un momento in cui, inopinatamente, tornano a farsi sentire in Medio Oriente e in Europa (Italia compresa) preoccupanti accenti antisemiti, tra inverosimili “negazionismi” e minacce di distruzione per Israele, sembra quanto mai necessario tornare ad interrogarsi sull’identità e la storia degli ebrei, e sul nesso che lega questo popolo con la terra e oggi lo Stato di Israele.
Il modo migliore per realizzare questo doveroso atto ermeneutico è probabilmente quello di porsi per prima cosa in ascolto dell’autointerrogazione che gli ebrei incessantemente hanno compiuto e compiono sulla loro identità, quella ricerca intorno a se stessi che divenne particolarmente urgente dopo la fondazione dello Stato di Israele, allorquando il problema dell’identità acquistò il concreto carattere di una definizione legislativa dei criteri della cittadinanza, e del rapporto che tali criteri dovevano intrattenere con l’antico diritto talmudico, l’Halakah.
Un momento alto, e poco noto, di questa autointerrogazione si ebbe nel 1958, allorquando Ben Gurion, capo d’uno Stato che aveva allora appena dieci anni, si rivolse ad alcune eminenti personalità del mondo ebraico, israeliano e della diaspora, ortodossi e assimilati, delle più varie professioni “intellettuali”, perché rispondessero alla domanda: che cos’è un ebreo?
Lo sfondo, come accennato, era costituito dal problema di determinare politicamente, al di là dell’ortodossia rabbinica, l’identità ebraica di fronte ai problemi posti dall’immigrazione e dai matrimoni misti. In termini più generali, naturalmente, il giovane stato d’Israele si era problematicamente interrogato sin dall’inizio sul rapporto che esso dovesse intrattenere con il diritto “secolare”, ad esempio con la grande questione, se potesse in Israele darsi una “Costituzione” in senso pieno.
Tra i “saggi d’Israele” – come li chiamò – a cui Ben Gurion si rivolse, uno dei più eminenti era senz’altro Isaiah Berlin, che Ben Gurion aveva conosciuto a New York nel 1941, e che cercò a lungo di legare a sé, fino ad offrirgli, nel 1950, la direzione del Ministero degli esteri del nuovo Stato d’Israele. Lo scambio di lettere che nel 1958 ne nacque sarà pubblicato sul prossimo numero della rivista “Paradoxa”.
Sin da quando ebbe modo di conoscere Ben Gurion, Berlin (che dalla fine del ’40 seguiva la politica americana come funzionario del governo inglese) era in realtà più legato a Weizmann – e affettivamente vi resterà sempre – sostenitore di un sionismo “gradualista”, anglofilo, contrario all’uso della violenza, che invece Ben Gurion riteneva necessaria sin dal periodo della guerra, anche per forzare la mano al governo inglese in direzione della creazione di uno Stato d’Israele. Dopo la conclusione della guerra apparve progressivamente chiaro che il destino di Israele era legato all’uso delle armi, e anche Berlin, dopo il 1948, cominciò a distanziarsi politicamente da Weizmann – cui il ruolo “formale” di capo dello Stato andava assai stretto – senza per questo accettare le numerose offerte che, come accennato, Ben Gurion e altri gli fecero perché si trasferisse in Israele e vi assumesse incarichi di prestigio.
Ciò non significa certo che Berlin non prendesse parte attivamente alla vita del nuovo Stato di Israele e alle questioni nuove che ciò poneva agli ebrei della diaspora. In risposta ad un intervento di Arthur Koestler, che sosteneva che ormai per gli ebrei non vi era altra possibilità che emigrare in Israele, oppure rinunciare alla loro identità ebraica, Berlin scrisse nel 1951 un saggio, Jewish Slavery and Emancipation, in cui non negava che con la nascita del nuovo Stato fosse per la prima volta possibile agli ebrei vivere una vita pienamente ebraica, ma negava che questa fosse per gli ebrei l’unica possibilità di essere tali.
Ignatieff ha scritto a tal proposito che “il sionismo di Berlin consisteva in una difesa dello Stato di Israele come condizione indispensabile non già dell’appartenenza ebraica, ma della libertà ebraica”. Questo tuttavia potrebbe indurre alla conclusione affrettata che per Berlin quelli dell’identità e dell’appartenenza non costituissero problemi reali, o quantomeno che egli non li avvertisse come tali. Al contrario, essi furono vissuti in modo intenso da Berlin, e proprio in virtù della sua identità ebraica. Come egli stesso scrisse, “per quanto riguarda le mie origini ebraiche, sono così profonde, così connaturate in me, che mi è difficile cercare di identificarle, ancor meno analizzarle. Ma questo è quello che posso dire: non sono mai stato tentato, nonostante la mia lunga devozione alla libertà individuale, di marciare con chi, in suo nome, rigetta l’appartenenza a una particolare nazione, comunità, cultura, tradizione, lingua: la miriade di aspetti inanalizzabili che stringono gli uomini in gruppi identificabili”.
Quando però Ben Gurion gli pose il dilemma concreto circa ciò che dovesse contare come criterio per determinare l’appartenenza al popolo ebraico, l’atteggiamento di Berlin fu a dir poco cauto, quasi tendente a defilarsi. Egli rispose con un certo ritardo alla lettera di Ben Gurion, che era stata spedita nell’ottobre del 1958 – proprio nei giorni in cui Berlin teneva a Oxford la celebre lezione inaugurale sui Due concetti di libertà. Nonostante una certa elusività, però, un punto è affermato da Berlin con chiarezza: lo statuto degli ebrei è così particolare, anomalo, composto da una molteplicità di elementi – nazionali, culturali, religiosi – strettamente legati tra loro, che ogni tentativo di affermarne l’indissolubilità, o al contrario di separarli, è destinato a creare profondi dissidi, in particolare tra ebrei religiosi e laici. Cionondimeno, Berlin non nega la sua simpatia per il progetto di definire lo Stato di Israele come Stato liberale e non teocratico, all’interno del quale, quindi, la cittadinanza deve essere determinata in termini non religiosi. Deve dunque essere possibile – argomenta Berlin – definirsi ebrei in termini di nazionalità, ma non di religione.
Per evitare di urtare la sensibilità religiosa degli ebrei ortodossi, poi, Berlin propone una soluzione compromissoria, come quella di caratterizzare gli ebrei per parte di padre non come “ebrei” in senso pieno, bensì come “di origine ebraica”, o simili. Tale soluzione appare a Berlin stesso insoddisfacente, e difficilmente può – trattandosi di cittadinanza – evitare l’impressione di creare cittadini di prima e di seconda classe – e ciò in base al diritto religioso, non a quello secolare. In definitiva, la scommessa di costituire un moderno Stato di tipo occidentale sulla base di quella “miscela” unica e problematica di caratteri che costituiscono l’ebraicità, appare a Berlin un compito che può bensì essere realizzato, ma solo consentendo a quei vari fattori ed elementi di esistere anche indipendentemente l’uno dall’altro, secondo quell’arte della distinzione, della separazione, che è, al fondo, l’essenza del liberalismo moderno.
Non si può dire che Berlin non sia stato profeta, se si pensa ai contrasti che in merito al peso dell’ortodossia rabbinica, in specie nel diritto di famiglia, continuamente si sono riaffacciati in Israele, ad opera naturalmente dei partiti religiosi. In tal senso, non pare azzardato ritenere che la pur esitante analisi di Berlin conservi un valore, a mezzo secolo di distanza, in un momento in cui lo Stato di Israele è chiamato a riaffermare il proprio diritto all’esistenza, mantenendo – di fronte alla sfida fondamentalista – le ragioni anche secolari di esso come fondamento della propria identità.