La proporzionale, un vecchio zombie che rischia di trasformarsi in realtà

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La proporzionale, un vecchio zombie che rischia di trasformarsi in realtà

06 Aprile 2012

Uno zombie si aggira nei palazzi romani, lo zombie della proporzionale. Questo fenomeno è tanto più preoccupante perché non si tratta di una comparsa improvvisa ma di una minaccia che si era già manifestata in passato sia pure sotto forme meno virulente. In tutti questi anni, infatti, paradossalmente già a partire dal referendum Segni del lontano 1993 e dall’approvazione del Mattarellum, il fantasma della proporzionale è stato periodicamente evocato ed ha sempre battuto un colpo.

Certo, all’inizio a tessere le lodi della proporzionale come modo di scrutinio ideale erano solo i centristi sfegatati, mozzorecchi della partitocrazia, orfani inconsolabili della costituzione dorotea. Fino a quando la pressione dell’opinione pubblica è stata forte la minaccia di una ripresa proporzionalista è stata contenuta. Poi però è cresciuta man mano. Due i punti di svolta che si possono indicare. Nel 1999 il referendum, che proponeva di cancellare la quota proporzionale del 25%, mancò il quorum per una manciata di voti. In quella circostanza la massoneria dorotea operò in modo efficace. Il partito di Casini riuscì a rendere meno definita la posizione del centro destra; la parte del leone, però, la fece il ministro degli interni del centro sinistra, una democristiana inossidabile corso come Rosa Russo Jervolino. Le liste elettorali non furono revisionate, alzando di fatto il quorum; inoltre (caso unico nella storia delle consultazioni elettorali repubblicane) si votò solo la domenica e non anche il lunedì mattina.

Tuttavia anche questi ostacoli non avrebbero retto rispetto a un atteggiamento più convinto della leadership di Forza Italia. Sarebbero bastati un po’ di spot sulle reti Fininvest portare alle urne una manciata di indecisi, segnando un punto di non ritorno. Berlusconi, condizionato da Casini e da consiglieri di osservanza antimaggioritaria, scelse un’attitudine attendista. A conferma di un’occasione irrimediabilmente persa, l’anno dopo il referendum fu riproposto da alcuni volonterosi, ma ottenne una percentuale di votanti assai più bassa. Come dicono i giuristi: nec bis in idem.

Il secondo passaggio si ha nel 2005. Al momento del varo della riforma costituzionale (poi malamente fallita), l’Udc, per dare il suo assenso, non mancò di chiedere una pesante libbra di carne:  modifica della legge elettorale, con l’abbandono del collegio uninominale e il ritorno alla proporzionale. La legge manteneva un impianto in parte maggioritario perché prevedeva l’indicazione del nome del candidato premier sulla scheda e l’assegnazione di un premio di seggi alla coalizione vincente. Tuttavia fissava una quota ridicolmente bassa per l’accesso alla rappresentanza dei partiti membri della coalizione (2%) e non prevedeva un premio al senato, rendendo problematico il raggiungimento di una maggioranza omogenea in entrambi i rami del parlamento.

Anche in questo caso fu indetto un referendum migliorativo. Le modifiche proposte avrebbero assegnato il premio solo al partito più grande della coalizione, togliendo capacità di ricatto e di condizionamento ai partiti minori. Era un’ottima occasione per fare un passo avanti verso il bipartitismo. Ma il PdL, cedendo al ricatto della Lega, non unificò la consultazione referendaria con le elezioni amministrative. Così addio quorum.

Adesso nelle discussioni tripartite sulle "riformine" costituzionali si torna a parlare di una nuova legge elettorale. Non si sa ancora come sarà questa legge, ma la parola d’ordine che circola con insistenza è una sola: proporzionale. Attenzione, in linea teorica il sistema proporzionale non è necessariamente negativo. Tecnicamente il termine indica solo la formula matematica che si adopera per trasformare i voti in seggi; ma un sistema elettorale si qualifica anche per altri aspetti (a cominciare dalla grandezza dei collegi). Tant’è vero che formule proporzionali possono dare risultati non disgregativi e aiutare il bipolarismo o, ancora meglio, il bipartitismo, come in Spagna.

Nel nostro caso, però, il ritorno alla proporzionale significa una cosa sola: recidere il legame tra voto degli elettori e governo. Per la classe politica italiana, il nostro paese non deve essere una democrazia immediata dove è l’elettore che decide chi dovrà governare per tutta la legislatura, ma una democrazia mediata, dove sono i partiti (spesso sigle effimere) che decidono la durata dei governi. Se le cose stanno così, parlare di ritorno alla prima repubblica significa essere troppo ottimisti, quello che ci attende è il ritorno di uno zombie.