La prova del nove per l’islam è il trattamento riservato ai dissidenti

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La prova del nove per l’islam è il trattamento riservato ai dissidenti

04 Gennaio 2012

Per chi in Occidente guarda alle primavere arabe come ad un inverno islamico, in Medio Oriente non ci sono persone sufficienti per liberarsi dalla paura, anzi, i musulmani sarebbero allergici alla democrazia e di conseguenza pronti ad accettare anche i regimi più odiosi. Dietro questo infausto pregiudizio si agita il disprezzo di chi guarda l’islam come a un blocco monolitico e immutabile, quando invece il sacrificio di sangue pagato da chi si è ribellato al dispotismo dimostra esattamente il contrario. Per gli scettici è come se il movimento che attraversa in questo momento quei Paesi dovesse avere successo in un battito di ciglia, senza scontri, senza sanguinose rese dei conti, quasi per magia.

Si dice giustamente che un regime basato unicamente sulla repressione interna non può durare in eterno ma nell’estate del 2009 milioni di iraniani, in prevalenza giovani, marciarono nelle strade del Paese per protestare contro i brogli elettorali che avevano riportato al potere il presidente Ahmadinejad: il regime rispose con la coercizione e le manifestazioni continuarono. Da allora i dissidenti sono stati arrestati, gli oppositori rinchiusi in carcere e torturati, ma la mullocrazia è ancora in piedi, occupa l’ambasciata inglese di Teheran, minaccia l’America nello Stretto di Hormuz e corteggia l’Europa con un nuovo round di talks sul nucleare.

Così i giovani dell’Onda Verde guardano con apprensione al destino dei loro fratelli siriani: se le potenze occidentali rimarranno alla finestra vuol dire che, finalmente, hanno capito la lezione. Non immischiarsi negli affari altrui. Eppure abbiamo bisogno di "vivere nella verità", come diceva Havel, ci servono leader (occidentali) che possiedano la necessaria chiarezza morale per distinguere tra democrazia e tirannia, libertà e paura; tanto più che il mondo arabo si è rivelato un sistema forse più oppressivo di quello sovietico e in un contesto in cui – lo insegna il caso della Palestina – non emergono nuove leadership alternative che sappiano governare il cambiamento in atto.

Secondo Natan Sharansky le "società della paura" sono così composte: ci sono i fanatici del regime, le masse ammaestrate che piangono a dirotto per la scomparsa del caro leader. E con loro c’è poco da fare, bisogna solo sperare che perdano la loro fedeltà coatta. Poi ci sono i "double thinkers", potremmo definirla la maggioranza silenziosa che dissimula il suo consenso al regime solo perché teme di finire nelle grinfie della polizia segreta; quelli che stanno attenti a come parlano per paura che il proprio figlio racconti a scuola che i suoi genitori non conservano una copia del Corano in casa. I "double thinkers" sono decisivi in momenti rivoluzionari: quando si accorgono che la misura è colma possono mobilitarsi implacabili portando alla caduta del regime (questo semina il dubbio anche negli ultrà…). Infine ci sono i dissidenti. Oggi, in Siria come in Iran, migliaia di persone si battono nelle piazze, nelle strade, sui tetti delle case, usando Twitter e Facebook per amplificare il rumore bianco della protesta: sono tutti quei soggetti, del mondo della politica e della società civile, fra i militari come tra gli artisti e gli uomini di cultura, che hanno estremo bisogno del nostro aiuto, del peso specifico che possono giocare gli Usa o la Ue sul palcoscenico internazionale.

Investire sulla primavera araba significa avere a cuore la nostra sicurezza interna: non ci si può fidare di Stati che fanno a pezzi la propria gente né avere interlocutori del genere nel concerto dei governi democratici. E quindi, se questi regimi non vogliono subire ritorsioni diplomatiche, sanzioni economiche, o nel peggiore dei casi attacchi militari, dovranno mostrarci qualcosa in più di un semplice appuntamento elettorale per giunta condito di brogli: a che punto siamo con la libertà di espressione, quella religiosa, con il rispetto della legge, con le riforme civili e sociali? Qual è il trattamento che viene riservato ai dissidenti e agli oppositori interni? Il parlamentare iracheno laico e sunnita Mithal Allousi potrà frequentare seminari sul terrorismo in Israele senza subire ritorsioni dalla premiership sciita? L’egiziano Maikel Nabil Sanad potrà scrivere di nuovo sul suo blog senza che Tantawi lo condanni all’ergastolo? Il deputato siriano Mamoun Homsi tornerà in Siria dal suo esilio libanese? E vedremo mai uno dei film censurati del regista iraniano Jafar Panahi che marcisce nella galera di Evin?