La questione fiumana e il primato della diplomazia istituzionale
30 Aprile 2019
Venerdì 19 Aprile 2019 si è tenuto il convegno dal tema “Istria, Fiume, Dalmazia”, organizzato dal senatore Carlo Giovanardi in qualità di presidente dell’associazione “Fiume 1918-2018” e dalla Fondazione Magna Carta, presieduta dal senatore Gaetano Quagliariello. Il confronto si è aperto con un’introduzione dello stesso senatore, il quale, nel presentare ospiti estremamente qualificati, ha preliminarmente esposto le tematiche centrali su cui avrebbe voluto che l’incontro vertesse. L’intervento del Professor Egidio Ivetic (nella foto) ha mostrato nella maniera più evidente quanto sia stata dannosa la logica settaria e partigianesca, tipica dell’ultra-nazionalismo, nelle vicende in esame, suffragando con dati precisi la sua argomentazione, secondo la quale la maggior parte degli intellettuali istrioti e soprattutto dalmati, come gran parte della popolazione urbana, durante tutto il Rinascimento e gran parte dell’Epoca Moderna, fosse ben lontana dalla coscienza (che venne fuori molto più tardi e arrivò al parossismo con l’irredentismo di marca dannunziana) di appartenere etno-linguisticamente al ceppo italiano.
Secondo Ivetic questi si consideravano un’aggregazione culturale a sé stante, nata per incubazione di elementi specifici dell’area dell’Adriatico Orientale e per il costituirsi, soprattutto in funzione anti-ottomana, dello Stato da Mar della Serenissima Repubblica di Venezia. La teoria secondo cui la gran parte delle sventure di queste zone siano state ingenerate da uno stolido nazionalismo è stata ripresa più avanti dal professor Giovanni Stelli, il quale, spiegando le differenze fra il concetto di stato e quello di nazione, ha sostenuto che il nazionalismo non potesse che essere un’insorgenza tardiva, pienamente ottocentesca, causata proprio dalla disgregazione degli stati transnazionali che fino a quel momento, pur conculcando il diritto di autodeterminazione dei popoli, contenevano le spinte centripete tipiche delle coscienze nazionali. Da tutto questo si può già intendere quanto il dibattito fosse sotteso di concetti quali la perniciosità di un particolarismo intollerante che tende a rivendicare a sé tutte le conquiste e i portati di una civiltà complessa, composta di innumerevoli elementi culturali, e la necessità del propagarsi della violenza in una tale situazione, arma con cui si portano facilmente a compimento sogni egemonici e di esclusione etnica. Molto interessante il prosieguo dell’argomentazione di Stellli, il quale ha ricordato che l’etimologia del termine inglese per designare la “pulizia etnica”, cleansing, non essendo semplicemente cleaning, sarebbe da ricondurre all’atto di purificazione (così afferendo addirittura alla sfera religiosa) e alluderebbe pertanto all’eliminazione dell’altro come a un compito sommo cui assolvere, una purificazione per l’appunto dagli elementi luridi e sordidi della propria società, tipici attributi accostati agli altri popoli dal nazionalismo intollerante di fine Ottocento e della prima metà del Novecento. Il Professor Luciano Monzali ha condotto il suo intervento su questa falsa riga, ricordando l’importanza storica di un approccio complesso al problema istro-dalmata e più in generale a quello balcanico, all’interno del quale solo una diplomazia avveduta, intrapresa dall’Italia dopo il ‘45, ha saputo districarsi con profitto, per poi placare progressivamente le animosità più accese. L’intervento è stato seguito dalla provocatoria esposizione del Professor Paolo Simoncelli, il quale, ribattendo alle argomentazioni di Monzali, ha espresso invece molti dubbi sulla reale qualità della diplomazia italiana di quegli anni a trazione democristiana, sfociata negli Accordi di Osimo, e di conseguenza sulla sua efficacia nella risoluzione della Questione Fiumana e dell’Esodo Giuliano-Dalmata.
Altro intervento prezioso è stato quello conclusivo del Presidente dell’Associazione Federesuli, Antonio Ballarin, il quale, riassumendo le vicende esistenziali di alcuni assistiti dell’associazione, ha evidenziato quanto poco si conoscano le tragedie di queste centinaia di migliaia di esuli ed espropriati e quanto poco si sia fatto (al di là di un poco informato riferimento alla tragedia degli infoibamenti) su un piano pratico per assisterli e indennizzarli delle loro perdite e delle loro sofferenze. Il vibrante dibattito sulle questioni balcaniche ha però rispettato il proposito più generale di interrogarsi sul tema delle follie totalitarie, poiché tutti i conferenzieri sono andati alla ricerca di quegli elementi primi che sarebbero alla base del ricorso alla violenza, pur nella varietà delle loro risposte alla medesima domanda. Se dovessimo presentare il profilo della violenza totalitaria tracciato dagli stessi conferenzieri, questa sarebbe causata dalla volontà di rimuovere gli altri dal proprio contesto territoriale, percepito come esclusivo, e di riplasmare la storia in maniera tale da farla combaciare con i propri desiderata, operazione tanto scorretta quanto in un certo senso efficace. La Questione Fiumana ha avuto infatti come ridicolo (seppur per alcuni versi geniale) tentativo di soluzione quello caricaturalmente ultra-nazionalista ideato e messo in pratica da Gabriele D’Annunzio a partire dal 1919, il quale, lungi dal risolvere il problema, lo ha invece sensibilmente aggravato. La visione uscita dal convegno è stata quella secondo cui lo strumento di risoluzione di questi conflitti è quello diplomatico-istituzionale, che, sorretto da uno studio approfondito dei problemi in questione, nonostante debba guardarsi bene da pericolose ipocrisie e infingimenti, serve a sanare situazioni esplosive, altrimenti irrisolvibili.