Virginia Raggi ha rotto gli indugi, affermando in almeno due occasioni in poche ore (a Il Foglio e alla sua maggioranza) di voler correre di nuovo per la poltrona di primo cittadino della capitale. L’incubo dei romani potrebbe non essere terminato.
Chi bazzica gli ambienti della politica sa che al Partito Democratico il Raggi bis non può andare bene. Nicola Zingaretti sta cercando in ogni modo di arrivare ad un accordo complessivo, che comporti per piddini e grillini una solida alleanza territoriale per le urne amministrative. La legge proporzionale che la maggioranza vorrebbe approvare, nei piani di Zingaretti, farà il resto. MoVimento 5 Stelle e Partito Democratico non sarebbero alleati solo da un punto di vista formale. Nel pratico, pentastellati e piddini costituirebbero, con l’aggiunta di una costola di sinistra magari guidata dal ministro Speranza, il “rinnovato” centrosinistra. Attorno a Virginia Raggi, a ben guardare, si gioca anche questa partita.
Virginia Raggi non è un’ipotesi percorribile per il Pd in vista delle comunali romane. Il presidente del consiglio Regionale Daniele Leodori, zingarettiano doc, è stato piuttosto chiaro sul punto. Il Pd può allearsi con i cinque stelle per il Campidoglio, ma non se il candidato è la Raggi. E questo banalmente perché la bocciatura, che è dietro l’angolo, è pronosticata da chiunque abbia un minimo del polso dell’opinione dei romani. Non ricandidarsi significherebbe per la Raggi ammettere di aver fallito. E con la “sindaca” avrebbe fallito anche il “fiore all’occhiello” delle esperienze amministrative grilline. Per ora poche, e tutte soggette a critiche popolari.
La ricandidatura della Raggi è un fatto d’orgoglio. “Virginia” sa che il suo partito sta a mano a mano perdendo la capacità di imporre gli uomini e le candidature, preferendo la logica di coalizione, come il caso delle regionali ligure testimonia. Al netto di un’esperienza amministrativa pessima, quello della Raggi è uno scatto per affermare che il MoVimento 5 Stelle esiste ancora e che non è del tutto abbarbicato addosso al Partito Democratico. Ma questo slancio – ne siamo certi – durerà poco.
I grillini hanno del tutto smarrito l’anima movimentista. Il fatto che non si vada a votare dipende per lo più dalla crisi di consenso contro cui il MoVimento andrebbe a sbattere in caso di voto anticipato. Dalle commissioni alle aule parlamentari, il governo ha già dimostrato di non poter contare su numeri solidi, eppure si tende a vivacchiare tra uno “stato d’emergenza” e un altro, soprattutto perché ai grillini votare non conviene. La paura delle urne segna la fine del grillismo per come lo abbiamo conosciuto. Il contismo, che potrà anche inglobare il grillismo un domani, è tutta un’altra cosa (per quanto mantenga alcune caratteristiche quali l’ambivalenza e la falsa critica alla politica corrente).
Sarà il Pd a costringere Virginia Raggi a ritirare la candidatura? Potrebbe anche non accadere. Il Pd potrebbe anche calare su Roma uno dei suoi assi, magari David Sassoli, per tentare di sigillare una sparizione politica – quella grillina – che è solo rimandata.