La “religione della libertà” per Benedetto Croce

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La “religione della libertà” per Benedetto Croce

La “religione della libertà” per Benedetto Croce

11 Novembre 2007

Gli articoli di Roberto Pertici e Maurizio Griffo riportano l’attenzione su Benedetto Croce, sulle sue posizioni nei confronti della religione e sulle sue scelte politiche. Di sicuro, Croce, pur non essendo un credente e votando contro il concordato, ebbe sempre un grande rispetto per la chiesa, anzi ebbe un senso religioso della vita e fu contrario a ogni forma di anticlericalismo. Basta ricordare le polemiche contro l’anticlericalismo della Roma che celebrava Giordano Bruno con le bandiere rosse. Nel primo quarto del ‘900 Croce fu non solo avversario dell’illuminismo e delle alcinesche dee della rivoluzione francese, ma anche un liberale critico della democrazia liberale del suo tempo. Nel gennaio del 1912, quando Salvemini fondò l’”Unità” in contrapposizione alla “Voce”, gli chiese addirittura se ritenesse davvero necessaria una democrazia. “Non sarebbe il tempo di smettere di aver fiducia nelle opposizioni e distinzioni dei partiti politici, tanto più che l’esperienza politica ci mostra che il partito che governa o governa è sempre uno solo e ha il consenso di tutti gli altri, che fanno le finte di opporsi? Non sarebbe meglio contare sugli uomini saggi, lavoratori e consapevoli del loro dovere verso la patria, i quali in Italia sono in maggior numero che non credano i pessimisti?”, chiese allora a Salvemini.

Ancora nel luglio del ’45 dette un giudizio durissimo su Salvemini: “ Salvemini – scrisse – fu ossessionato da un odio ferocissimo contro Giolitti e non vedeva altra via per il popolo italiano che il suffragio universale. Nel cervello di Salvemini vi è caos”. Per sua stessa ammissione, Croce ebbe problemi a digerire la democrazia, perché gli pareva simile a una lotteria. Nel 1911 scriveva: “[..] lottano metallurgici e magistrati, ferrovieri e professori universitari, tranvieri e ufficiali di marina, e, perfino i pensionati dello Stato, perfino gli scolaretti delle scuole secondarie contro lo sfruttamento che eserciterebbero sopra di essi i loro maestri. […] Lo Stato è concepito come una lotteria, alla quale tutti giocano e nella quale si può vincere studiando un libro meno mistico di quello della Cabala, facendo chiasso sui giornali, agitandosi, minacciando e premendo su deputati e ministri”.

Nel 1911 per Croce il socialismo era morto: l’aveva combattuto alleandosi con i sindacalisti rivoluzionari, con i nazionalisti, con i ragazzi della “Voce”, ma era preoccupato per una generale decadenza. “Vedete un po’ – scriveva – se vi riesce di far che un gruppo di artisti collabori a un monumento. Questo che si otteneva sessanta o settant’anni fa, da scultori e pittori che avevano frequentato l’accademia e si recavano a messa la domenica (ossia si sottomettevano interiormente a qualcosa o qualcuno), ora è inconseguibile: […] I nostri monumenti saranno per i posteri i documenti della nostra convulsione morale”.

Il senso religioso della vita era per Croce la capacità di sentirsi parte di un tutto e questo senso delle cose gli sembrava perduto. Per questo Croce nel primo quarto del secolo fu un fautore dell’antipolitica o, per dirlo con una espressione di moda, desiderò fare collassare il sistema. Quando però si trovò di fronte l’occasione per farlo collassare – la prima guerra mondiale – si ritirò. Mentre Gentile, fino allora l’impolitico della coppia della “Critica”, fu favorevole all’ingresso in guerra perché da essa sarebbe nata una nuova Italia, Croce si oppose perché era filotedesco e riteneva che la sconfitta della Germania e Austria sarebbe stata la fine dell’Europa. Croce si oppose anche perché comprese la possibilità esistente in Europa di trasformare la guerra in guerra civile e in una rivoluzione socialista.

La rivoluzione bolscevica del ’17 dimostrò che aveva ragione. Croce criticò fortemente anche lo wilsonismo e la Società delle Nazioni. “Noi stiamo entrando nel periodo più detestabile della decadenza: quello della plutocrazia, all’americana”, gli scrisse alla fine della guerra l’amico Sorel, il corrispondente più assiduo durante il conflitto. Durante la guerra i rapporti con Gentile sono freddi. Come è noto, Croce fu favorevole al primo governo Mussolini e diventò antifascista nel ’25. Fu un antifascista liberale, nemico di ogni totalitarismo. Durante il fascismo, Croce sviluppò la sua concezione del liberalismo come “religione della libertà”, pur rimanendo un realista politico. In Croce ideale morale e realismo politico non si fondono: la libertà rimane un ideale morale, che rifiuta di contaminarsi con le tecniche e gli strumenti della libertà liberale e questo è il rimprovero che gli viene sempre mosso dagli scienziati politici. Croce era un filosofo e solo un grande filosofo poteva scrivere nel 1946 La fine della civiltà, dove la libertà non è più una religione della cui vittoria si può essere certi anche in prigione, ma un principio per la cui difesa è necessario combattere ogni giorno una battaglia, il cui esito non è scontato.