La Repubblica dei post-it

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La Repubblica dei post-it

31 Maggio 2010

Un tempo c’erano i post-comunisti, qualche post-democristiano, molti post-liberali. Oggi La Repubblica è piena di post-it. La corazzata di Largo Fochetti, infatti, si attrezza per i “tempi bui”.

Come la madre previdente che prima di una calamità naturale annunciata dai super-meteorologi corre a fare provviste e riempie la dispensa, così “La Repubblica”, il quotidiano di Carlo De Benedetti, si porta avanti. Anzi, mette le mani avanti.

E annuncia urbi et orbi che quelli che corrono sono gli ultimi giorni utili per poter leggere in santa pace retroscena o pezzi di giudiziaria come Dio comanda, con annessa la dose giornaliera di intercettazioni che aiutano a farsi un’idea, o meglio, a “processare” sui media il tizio di turno. L’annuncio è di quelli altisonanti e di sicuro effetto (anche visivo) , con tanto di “logo” a corredo di ogni pezzo scritto dai mega-giornalisti (compresi quelli di reazioni o analisi politiche sul tema che col ddl intercettazioni non hanno nulla a che fare) che tra breve subiranno un’umiliante quanto assurda ingiustizia: niente più diritto di cronaca.

Tutta colpa del ddl sulle intercettazioni che il quotidiano diretto da Ezio Mauro definisce “legge bavaglio”, mutuando la terminologia direttamente dal lessico dipietresco giustizialis-populista.  

Un post-it per ogni articolo, dunque, nelle pagine dedicate al tema giustizia con la frase inquietante: “Con la legge bavaglio non leggerete più questo articolo”. Come dire: la mannaia della censura del regime berlusconiano priverà noi giornalisti di un diritto sacrosanto e i cittadini di un diritto altrettanto fondamentale, quello della conoscenza. Scenari apocalittici a parte, l’ennesima crociata di Rep impone qualche riflessione.

A parte il fatto  che non ci pare così catastrofica la norma che il Senato si appresta a discutere e varare proprio perché frutto di una lunga mediazione (tra l’altro ancora suscettibile di ulteriori modifiche) finalizzata a trovare il punto di equilibrio più alto tra esigenze dell’attività investigativa,  dell’informazione e del diritto del cittadini a tutelare la propria privacy (come del resto anche alcuni magistrati hanno evidenziato positivamente ), fa specie che i moralisti, i politically correct di Largo Fochetti non si siano minimanete posti il problema che c’è a monte della revisione del ddl, ovvero l’abuso che in questi anni certe procure hanno fatto di uno strumento sicuramente importante per accertare delitti e arrestare pericolosi esponenti della criminalità organizzata, così come politici, finanzieri, professionisti e amministratori pubblici corrotti o concussi, truffatori e maniaci sessuali.

Col risultato che, purtroppo con una certa frequenza, il tizio di turno viene processato due volte – in tribunale e sui media – e magari alla fine si scopre che non c’entrava nulla con quell’inchiesta. Non sarebbe una novità e l’ultimo caso in ordine temporale lo conferma: la vicenda di Rino Formica che ha dovuto attendere ben diciassette anni con annesso sputtanamento politico e gogna mediatica, prima di sentirsi dichiarare assolto per non aver commesso il fatto.  

Ma calza a pennello anche l’esempio di Finmeccanica per il quale forse sarebbe meglio non leggere articolate ricostruzioni e congetture o almeno non ancora, visto che non c’è neppure un’indagine aperta, un fascicolo e un magistrato che ipotizza un reato e cerca riscontri.

E fa specie che quelli di Rep., sempre così scrupolosi, non si siano soffermati  su un dato oggettivo: il tritacarne mediatico nel quale nove volte su dieci è destinato a finire un ignaro cittadino solo perché il suo nome compare casualmente in un elenco di altri nomi sospetti, o perché al telefono si lascia andare a un commento che può essere interpretato o considerato riconducibile a questo o quel personaggio in odore di illegalità.

Altra considerazione: pure se quelli di Rep. avessero ragione e il ddl sulle intercettazioni fosse il peggio del peggio mai partorito da una mente umana deviata o malata, resta il fatto che magari d’ora in poi potremmo leggere articoli frutto di un lavoro approfondito di raccolta di notizie e di verifica, fatto direttamente sul campo.  

Insomma, è tempo che tutti i giornalisti, compresi quelli della “gioiosa macchina dell’informazione debenedettiana” si mettano una mano sulla coscienza e l’altra sulle gambe per mollare la scrivania dietro la quale spesso stanno comodamente seduti in attesa che sulla mail o via fax, o brevi manu, arrivi il “materiale di giornata” dagli uffici giudiziari (qualche magistrato “amico” o qualche cancelliere “militante”) che in barba anche alla violazione del segreto istruttorio “passano” con assoluta nonchalance.  

Se dunque il giornalista tornasse alla vecchia regola in base alla quale le notizie non si aspettano ma si vanno a cercare, potremmo leggere qualcosa di meglio e di più interessante rispetto alle solite veline – talvolta “rosse” – che escono puntualmente dai palazzi di giustizia.