La ‘riconciliazione’ palestinese non la vuole davvero nè Hamas nè Fatah
10 Marzo 2012
Gli sforzi dell’asse sunnita per permettere una riconciliazione tra Hamas e Al Fatah non servono a molto. Ad aprile dello scorso anno le due fazioni palestinesi s’incontrarono in Egitto e lo scorso febbraio a Doha ma questo matrimonio sembra proprio che non s’ha da fare.
L’accordo raggiunto a Doha il 6 febbraio scorso tra Hamas e Fatah prevedeva la formazione di un Governo palestinese di unità nazionale, indipendente e guidato dal presidente Abu Mazen. Inoltre, era prevista l’istituzione di un Comitato congiunto incaricato di organizzare le elezioni (per la presidenza, per il Consiglio legislativo e per il Consiglio nazionale palestinese dell’OLP) previste per maggio del 2012 e responsabile di mettere in piedi una Commissione elettorale.
Dalle parole, però, ancora non si è passati ai fatti. Le due fazioni palestinesi si accusano reciprocamente di essere un ostacolo alla formazione di un governo condiviso. Fatah dichiara che “i colloqui per la formazione di un governo palestinese di unità nazionale, resteranno sospesi fino a quando Hamas non consentirà alla Commissione elettorale centrale palestinese di operare nella Striscia di Gaza”. Inoltre, Jamal Muhaissen, membro del Comitato centrale di Fatah, ha accusato Hamas di impedire alla Commissione elettorale centrale di registrare circa 250.000 elettori della Striscia.
Il Comitato era stato riaperto a Gaza a Gennaio scorso e tuttavia non è mai stato operativo. Hamas, d’altro canto, accusa Abbas per il ritardo della formazione del team bipartisan. Una delle motivazioni portate avanti dal movimento terrorista della Striscia è che “non si possono tenere le elezioni senza la libertà per gli esponenti di Hamas in Cisgiordania”.
Inoltre, un membro del Consiglio centrale dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (Olp), Abdel Jawwad Salih, aveva presentato una sfida legale alla nomina di Abbas a premier, sollevando l’incostituzionalità della duplice carica: quella di primo ministro e di presidente – senza parlare dell’inopportunità (per non dire altro) che rappresenterebbe un governo formato anche da un’organizzazione ritenuta terroristica dal Vecchio e dal Nuovo Continente.
Comunque, la Corte costituzionale di Ramallah ha posticipato al 20 Marzo l’udienza sulla liceità della nomina del presidente dell’Autorità palestinese. Oltre ai problemi legati alla formazione di una coalizione nazionale e alla relativa organizzazione elettorale, l’enclave governata dal movimento terrorista islamico ha anche altri problemi. Da metà Febbraio, continue interruzioni di corrente elettrica, con conseguenti black-out a catena, hanno lasciato famiglie, centri medici e centri commerciali con solo sei ore di elettricità al giorno. Questo è accaduto a causa della mancanza di carburante per alimentare l’unica centrale elettrica di Gaza.
Il leader di Hamas Ismail Haniyeh ha preteso che l’Egitto, che controlla il flusso di carburante destinato a Gaza, dovrebbe fare di più per aiutare il paese dopo la caduta dell’ex presidente Mubarak; ma alcuni esponenti del governo egiziano pare che siano molto infastiditi dal fatto che il gasolio ‘a buon prezzo’ destinato agli egiziani venga dirottato ai gazawi. Hamas potrebbe prendere il carburante necessario dall’Autorità nazionale palestinese ma il traffico di contrabbando attraverso i tunnel che collegano Gaza all’Egitto sono economicamente più proficui, stando a quanto ha dichiarato alla Reuters un funzionario di una Ong che opera nella Striscia ma che preferisce restare anonimo: “Quando il carburante viene acquistato dai tunnel, Hamas aumenta le proprie entrate”.
Ciò nonostante, i black-out elettrici non sono l’unico problema della Striscia. Hamas ha introdotto nuove tasse ai gazawi e alcuni palestinesi avvicinati dalla Reuters hanno dichiarato di dovere far fronte a una disastrosa crisi economica dovuta alla mala gestione del governo islamico. Commercianti che importano merci da Israele e dal West Bank in una rara dimostrazione di sfida pubblica hanno rifiutato di pagare tasse supplementari d’importazione, e per protesta hanno lasciato 22 camion carichi di merci al valico di Kerem Shalom. Dopo tre settimane i prodotti sono stati trasferiti a Gaza, ma una buona parte è marcita.
"Non voglio pagare ulteriori tasse sui prodotti. Inoltre, i proprietari dei negozi non li comprerebbero mai perché dovrebbero rivenderli a prezzi troppo alti", ha confidato alla Reuters Salah Al-Maqadma, un uomo d’affari, livido per aver dovuto pagare 20.000 shekel per ognuno dei suoi tre camion che trasportano merci dalla Giordania. Hamas inizialmente ha cercato di imporre oneri supplementari su almeno 17 tipi di prodotti, tra cui vestiti per donne e bambini, biscotti, succhi di frutta, mobili e caffè.
Dopo la protesta del business circle l’elenco si è ridotto a quattro tipi di merci ma sono quattro prodotti molto richiesti che passano dall’Egitto attraverso il labirinto di tunnel architettati per il contrabbando.
Hamas , quindi, sta lottando per sbarcare il lunario e questo accade nonostante gli ingenti aiuti economici devoluti dai Paesi arabi e dall’Occidente, come le ingenti quantità di denaro ricevute dall’UNRWA per la Striscia di Gaza. Ma che fine fanno questi fondi?