La riforma del lavoro di Monti mette in luce le debolezze della Cgil (e del Pd)

LOCCIDENTALE_800x1600
LOCCIDENTALE_800x1600
Dona oggi

Fai una donazione!

Gli articoli dell’Occidentale sono liberi perché vogliamo che li leggano tante persone. Ma scriverli, verificarli e pubblicarli ha un costo. Se hai a cuore un’informazione approfondita e accurata puoi darci una mano facendo una libera donazione da sostenitore online. Più saranno le donazioni verso l’Occidentale, più reportage e commenti potremo pubblicare.

La riforma del lavoro di Monti mette in luce le debolezze della Cgil (e del Pd)

La riforma del lavoro di Monti mette in luce le debolezze della Cgil (e del Pd)

04 Gennaio 2012

 

Probabilmente siamo alla resa dei conti. Al bilancio della nostra democrazia che ha defenestrato dei rispettivi poteri un Governo e un Parlamento eletto dalla maggioranza degli italiani, inventandosi un’Autorità tecnica per dare al Paese le riforme di cui ha urgente bisogno. E potrebbe essere proprio una riforma – quella del lavoro, ossia dei licenziamenti e dell’articolo 18 – la pietra d’inciampo che metterà a nudo la triste realtà: la Politica non può fare a meno dei tecnici per operare e realizzare le iniziative di governo. Ma non vale il contrario: i Tecnici non possono sostituirsi alla politica.

La giornata di ieri è trascorsa in un’aspra discussione sulle modalità del confronto, tra governo e parti sociali, su riforma del lavoro e dei licenziamenti che dovrebbe esserci a partire dalla prossima settimana. E’ la leader della Cgil ad aprire le danze in mattinata, civettando su twitter: «Monti non convochi i sindacati separatamente» perché «gli incontri separati, stile Maurizio Sacconi, rendono tutto più complicato e più lungo». Il naturale prosieguo è una serie di botte e risposte tra esponenti di sindacato e di partito. Infine, il governo conferma che i tavoli di confronto resteranno bilaterali, di fatto chiudendo la porta alla Camusso e alle sue invettive per riaffermare la vecchia politica, stile concertazione.

Il vero nodo della questione è proprio le modalità di gestazione della riforma: la Cgil e il PD, più di altri, hanno da recuperare credibilità (e voti), dopo la riforma delle pensioni che nulla contiene delle loro posizioni. Tanto è vero che il suggerimento della Camusso viene subito sostenuto dal PD. Dal pantano in cui è finito, non avendo pronunciato ancora una sua linea unica sulla riforma del lavoro –ieri, dalle colonne del Sole24Ore, a ricucire gli strappi interni al partito ci ha provato un altro ex ministro del lavoro, Tiziano Treu, padre della flessibilità del lavoro: «quanto all’articolo 18, non ho tabù. Se, tuttavia, il tema è motivo di conflitto sociale, credo sia meglio lasciar perdere» – arrivano le esortazioni del segretario, Pier Luigi Bersani: «il governo non rompa la coesione sindacale». A cui fa coro l’ex ministro del lavoro, Cesare Damiano, suggerendo a Monti e al governo di non dare l’impressione di voler dividere i sindacati, ma di valorizzare la ritrovata unità.

 

Il mezzo miracolo è che gli altri leader dei sindacati non abboccano all’amo teso dalla Camusso nel rivendicare l’unità sindacale; del resto, non avrebbero potuto fare diversamente, poiché già fautori del “dialogo sociale”, in contrasto alla concertazione, con il passato governo. La Cisl conferma la disponibilità ad incontrare il governo da soli: «al di là della forma, per noi conta la sostanza», dichiara Raffaele Bonanni; quindi «se il governo vuole avviare una fase esplorativa propedeutica ad un negoziato vero, la Cisl non si sottrarrà, come sempre, a questo confronto». Salando le parole con un pizzico di probità conclude: «più degli altri, non bisogna avere paura di se stessi in una trattativa sindacale». Stessa musica quella suonata dalla voce di Luigi Angeletti: poco importa se la trattativa avviene con Cgil e Cisl oppure da soli. Ciò che più sta a cuore al numero uno della Uil è altro: che il governo cambi ricetta, aumentando «il potere d’acquisto di lavoratori e pensionati» e «riducendo la pressione fiscale sulle imprese».

E’ la resa dei conti. Perché sono inconciliabili le posizioni sindacali e, soprattutto, quelle dei Partiti sulla riforma del lavoro, dei licenziamenti e dell’articolo 18. E’ la resa dei conti perché, da una parte c’è chi lavora per ritornare al vecchio metodo della concertazione (sindacati e PD) e dall’altra chi, invece, è stato meritevolmente fautore dell’abbandono di questo vecchio stile della politichese. Nel mezzo resta Monti e il suo governo, consapevoli che sarà molto più difficile condurre in porto la riforma del lavoro con il consenso di Parlamento e sindacati, rispetto a quanto è avvenuto con la riforma delle pensioni. Che intanto deve decidere “se”, “come” e “con chi” continuare a governare.

Le difficoltà di Monti (e del governo) vengono subito percepite dal Capo dello Stato, che di questo governo tecnico resta padre e regista assoluto. Sempre ieri, nel crescente clima di tensioni, Giorgio Napolitano prova a calmare gli animi: «vedo che c’è una necessità ampiamente riconosciuta da tutti che è quella di ripensare agli ammortizzatori sociali da un lato e dall’altro di affrontare i nodi che sono stati già affrontati con l’accordo del 28 giugno tra le confederazioni sindacali, che fu un accordo sottoscritto da tutti». E’ la consueta dritta al governo: accontentate tutti per non scontentare nessuno. Il Capo dello Stato è chiaro nel suo tipico linguaggio. E sembra avvertire: “allontanate via l’attenzione di partiti, parti sociali ed opinione pubblica dal mercato del lavoro e dall’articolo 18!”, consapevole del fatto che Monti e il suo governo son finiti seduti su una bomba pronta ad esplodere. Detto, fatto. In serata arriva il comunicato del ministero del lavoro (da “chi” a quella bomba ha dato fuoco alla miccia): «in merito alla pratica delle “dimissioni in bianco”, il ministro del lavoro e delle pari opportunità, Elsa Fornero, precisa che il problema è all’attenzione del ministero. Ciò in quanto “tale pratica pesa fortemente e negativamente sulla condizione delle donne e sulla loro stessa dignità, costituendo una vera e propria “devianza” dai principi di libertà alla base della società civile». Domani è un altro giorno.

Ps Mi perdoneranno i Lettori de l’Occidentale se, di seguito, ripropongo un estratto di un articolo già apparso su queste pagine il 27 agosto 2010.

 

Il diritto del lavoro italiano ha molti peccati da confessare. Ma ce n’è uno, a discolparsi del quale dovrebbe essere la (vecchia classe) “politica” e non solo il diritto del lavoro: è quell’eccezionale deroga alla procedura di formazione delle leggi, cosiddetta “concertazione”. Un metodo, mediante il quale, le Parti sociali (cioè le organizzazioni di rappresentanza dei lavoratori, i Sindacati, e dei datori di lavoro) partecipano al potere politico dello Stato, mediante un confronto con il governo, in genere prima della stesura di un testo normativo, finalizzato a una sorta di autorizzazione preventiva sui contenuti della nuova legge. A rendere ancor più grave il peccato della concertazione c’è il fatto che essa non è propria solo del diritto del lavoro, me è utilizzata su tutti gli interventi di politica economica. La concertazione nasce per risolvere i problemi della disoccupazione causati dalla crisi petrolifera (anni ’70). Non ha mai avuto un’istituzionalizzazione giuridica, ma è stata disciplinata dal Protocollo «Giugni» sul costo del lavoro del 23 luglio 1993. Si fonda su uno “scambio” politico: in cambio del preventivo consenso su alcuni interventi impopolari e onerosi soprattutto per i lavoratori, i governi hanno riconosciuto alle organizzazioni sindacali un ruolo stabile e di prima fila nel processo politico di elaborazione delle principali scelte di politica economica e sociale.

Il rischio della concertazione è quello di configurarsi come un vero e proprio “potere di veto” in mano al Sindacato. Infatti, stando alla sua procedura, l’atto legislativo non dovrebbe essere prodotto in caso di mancato accordo preventivo e unanime da parte dei Sindacati. Poteva succedere, ma così non è stato, per fare qualche esempio, in occasione della riforma della “scala mobile” nel 1984, quando il governo Craxi emanò comunque il provvedimento legislativo (decreto legge), nonostante avesse avuto un consenso limitato di Cisl e Uil, e non anche della Cgil (accordo di «S. Valentino» del 14 febbraio 1984). E’ stato questo il primo esempio di rottura della prassi di concertazione. Una rottura non incostituzionale, come dichiarato dalla corte Costituzionale investiva della questione di legittimità per presunta violazione del principio di libertà sindacale. Da lì ad oggi, nessun governo si è mai rifiutato di praticare la concertazione. Finché è arrivato il Libro Bianco sul mercato del lavoro del 2001, elaborato da un gruppo di esperti guidati da Maurizio Sacconi, che decreta la svolta: scompare la concertazione e nasce il “dialogo sociale”, sulla base dell’esperienza Ue. Il tono che cambia è quello del confronto tra governo e Parti sociali: un confronto più agile, da consentire una chiara distinzione delle reciproche responsabilità (governo, parlamento, sindacati). In tal modo, il confronto preventivo non rappresenta più l’obiettivo, ma diventa lo strumento per il conseguimento di obiettivi condivisi. Nulla di più di una consultazione lasciando però l’ultima parola ai governi, ossia la decisione di procedere o meno alla produzione di una certa proposta di legge, anche quando manchi l’unanime consenso dei sindacati.