La riforma del lavoro è legge ma mezzo Pdl non l’ha votata
27 Giugno 2012
“Siamo un gruppo liberale” dice Fabrizio Cicchitto a chi gli domanda perché 87 deputati su 209 a vario titolo non hanno votato la riforma del lavoro che passa, dopo l’ok del Senato e al termine di cinque mesi di mediazioni non senza pasticci. Al netto della diplomazia che sfodera il capogruppo a Montecitorio, la realtà è che nel primo socio azionista del governo Monti cresce la componente anti-montiana, quella del voto subito e a prescindere, quella del chissenefrega se c’è la crisi.
Oltranzisti, certo. Ma la sensazione è che inizi proprio da qui la battaglia in trincea di un Pdl che vuole marcare – sempre di più – la distanza dall’esecutivo, in attesa di capire come andrà il vertice europeo e soprattutto quali risultati il premier porterà a casa. Non è un caso se il Pdl non ha aderito alla mozione unitaria di Pd e Udc alla vigilia del Consiglio europeo pur ribadendo sostegno alla ‘mission’ del Prof. Non siamo al ‘facciamo saltare il banco’ epperò a Via dell’Umiltà sono determinati a incalzare i tecnici sull’agenda delle cose da fare. Senza rinunciare più a nulla. Il che significa rimarcare che non c’è alcuna maggioranza politica a supportare le scelte di Palazzo Chigi.
Non è un caso nemmeno l’ultimatum di Cicchitto al premier esplicitato nell’intervento in Aula: “Questa è l’ultima volta che cala la mannaia della fiducia che impedisce al Parlamento di poter lavorare”, determinando che “il Parlamento venga espropriato due volte, dai tanti decreti legge e dal meccanismo della fiducia, anche in presenza di dissensi significativi con i quali avete il dovere di misurarvi perchè siete un governo di tecnici, ma non un governo di ‘consules’, al di sopra del Parlamento e della democrazia”. Messaggio ai tecnici, ma soprattutto all’elettorato deluso.
E’ anche per questo che mentre Pd e Terzo Polo firmano una mozione unitaria per l’Europa, il Pdl non rinuncia alle sue posizioni che, come ribadisce lo stesso Cicchitto, vogliono segnare la continuità con il governo Berlusconi. C’è poi il fatto che non si vuole ripetere ciò che accade a gennaio quando tutta la maggioranza si presentò compatta con un’unica mozione. Adesso lo scenario è cambiato, spiegano alcuni deputati pidiellini, facendo intendere che è già tempo di campagna elettorale e dunque occorre mantenere le distanze rispetto a Bersani e Casini.
E il Cav? Non vuole staccare la spina a Monti ma nemmeno continuare ad avallare scelte non condivise. Di qui la ‘campagna’ per una Bce più forte in sede europea che poterà avanti oggi al vertice del Ppe riunito alla vigilia del summit di Bruxelles. A Roma, invece, il partito prepara le prossime mosse: attenderà al varco – così almeno promettono nel quartier generale di via dell’Umiltà – il governo sulle modifiche promesse alla riforma del lavoro, a partire dalle proposte presentate dal Pdl; poi sarà la volta della spending review e del provvedimento sullo sviluppo.
Ma c’è un altro passaggio della giornata parlamentare non secondario. A Palazzo Madama passa l’emendamento della Lega sul Senato federale e scoppia la bagarre. Pd, Udc e Idv sugli scudi, critiche a Schifani (arrivano anche dal senatore Pdl Pera) ritenuto non superpartes nella vicenda. Vicenda che, sul piano politico, segna un ritrovato asse con la Lega e un passo in avanti verso la riforma del semipresidenzialismo. Ed è per questo che Bersani e Finocchiaro gridano allo scandalo. Forse perché adesso dovranno dimostrare coi fatti se sono riformisti. Se ne riparla la prossima settimana, intanto c’è Bruxelles e la ‘mission’ di Monti con frau Merkel.