La riforma del mercato del lavoro è un mostro politico, giuridico, economico e sociale

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La riforma del mercato del lavoro è un mostro politico, giuridico, economico e sociale

26 Marzo 2012

Riforma del mercato del lavoro: la montagna non si è limitata a partorire il classico topolino; questa volta ha dato alla luce (sia pure <salvo intese>) ad un mostro politico, giuridico, economico e sociale. A fronte di una modesta revisione dell’articolo 18,  il progetto del Governo Monti – ed è scandaloso che lo abbiano fatto degli intellettuali di chiara fama al solo scopo di rabbonire, inutilmente, la Cgil e la sinistra – ha fatto proprie  tutte le <mistiche> del precariato che, grazie anche al lavoro unilaterale dei media, si sono trasformate da banali luoghi comuni in verità rivelate ed indiscutibili.

Un Governo che ha la pretesa di liberalizzare l’economia e di semplificare la vita e l’attività delle imprese si appresta ad irrigidire ulteriormente il mercato del lavoro, non già <bonificando> le forme di flessibilità in entrata, ma caricandole di vincoli tali che le renderanno impraticabili. Tutto ciò determinerà un’ecatombe di posti di lavoro ben più effettiva ed ampia  di quella strumentalmente propagandata a causa dei <licenziamenti facili>. In sostanza, lo scambio tra maggiori tutele in entrata e minore rigidità in uscita è assolutamente squilibrato. Vediamo perché.

Riforma dell’articolo 18

Il nuovo articolo 18 dovrebbe essere così combinato: reintegra nel caso di licenziamenti discriminatori; soluzione alla tedesca (è il giudice che decide quale sanzione applicare tra la reintegra e l’indennizzo) per i licenziamenti disciplinari; solo indennizzo, compreso tra 15 e 27 mensilità (sic !), nel caso di licenziamento per motivi economici. Su quest’ultimo punto si è scatenata la bagarre, con la richiesta del Pd (e della Cgil ?) di affidare anche in questo caso al giudice la facoltà di ordinare la reintegra. In sostanza, come è giusto, è sempre previsto l’intervento di un giudice, il quale è in grado di accorgersi se i motivi del licenziamento siano diversi da quelli enunciati dal datore ed applicare le sanzioni pertinenti. A parte il fatto che il Governo non reggerà in Parlamento sulla trincea dei licenziamenti economici, il cambiamento è comunque irrilevante anche nel caso di licenziamenti per motivi disciplinari, per i quali  la soluzione tedesca (spetta al giudice a scegliere se applicare la reintegra o l’indennizzo) dovrebbe aver maggior significato. In realtà, i margini di autonomia del giudice sono molto limitati, perché è la norma stessa a prevedere i casi (assolutamente prevalenti) in cui esso deve applicare la reintegra rispetto a quelli (in particolare, a fronte di vizi di forma) in cui può ordinare solo l’indennizzo.

Il massacro dei rapporti di lavoro flessibili

Le misure proposte dal Governo per riformare i contratti di lavoro flessibili si caratterizzano per una rigidità inattesa, se si considera che in questi mesi era stato spesso sbandierato l’obiettivo di incentivare la flessibilità "buona" e, allo stesso tempo, scoraggiare l’utilizzo delle forme di lavoro maggiormente precarizzanti. In realtà, il progetto non bonifica la precarietà, scoraggia ogni tipo di flessibilità sottoponendola ad un pregiudizio di illegittimità e imponendo ai datori l’inversione dell’onere della prova. Le proposte diffuse dal Governo  prefigurano, infatti, una generale e indistinta azione di contrasto verso tutte quelle forme di lavoro diverse dal rapporto a tempo indeterminato,  mediante l’introduzione di formalismi oggi mancanti o l’aumento del costo del lavoro.

Contratti a termine

Premesso che questa tipologia contrattuale è stata regolata sulla base di una direttiva UE rivolta a <liberalizzare> l’uso del contratto a termine; premesso altresì che tali contratti sono regolati dalla contrattazione nazionale come quelli a tempo indeterminato e che da noi la loro diffusione (pari al 12,8% del totale degli occupati) è assolutamente in linea con quanto accade nei paesi europei, quello che il documento propone in materia di contratto a termine è paradigmatico di questo approccio.
Il lavoro a termine, quindi, ha tutti gli elementi per essere considerato come una forma di flessibilità "buona": ha una durata limitata (massimo 36 mesi), è soggetto a limiti quantitativi e garantisce l’applicazione di tutti gli istituti tipici del lavoro subordinato previsti dai contratti nazionali di lavoro. Peraltro, la materia era stata rivista in senso limitativo dal Governo Prodi, sulla base di quanto previsto dal Patto sul welfare con le parti sociali del 2007. Il Governo trascura questi aspetti e ipotizza delle norme finalizzate apertamente a scoraggiare l’utilizzo di questo contratto. Innanzitutto, si propone l’aumento del costo del lavoro per chi si avvale di  lavoratori a termine, mediante un complicato meccanismo di bonus malus (un incremento contributivo dell’1,4% che viene restituito al momento della c.d. stabilizzazione) che finirà per indirizzare molte imprese verso l’utilizzo di altri contratti di lavoro, magari molto più precarizzanti. Inoltre, si propongono regole che finiscono per danneggiare i lavoratori, come l’aumento del periodo di intervallo tra un contratto a termine e l’altro.
Ancora più penalizzante è la norma che proporre in includere nel tetto di durata massima del contratto a termine anche i rapporti svolti nell’ambito della somministrazione di lavoro. Questa disposizione si traduce, di fatto, in una compressione fortissima di due strumenti (contratto a termine, somministrazione) che invece andrebbero incentivati, in quanto garantiscono tutti i diritti sanciti dai contratti di lavoro. Vengono poi allargati, sostanzialmente, i termini per impugnare tali contratti correggendo quanto in proposito era stato previsto nel <collegato lavoro>.

Apprendistato

Il Governo ha più volte affermato la propria volontà di incentivare l’apprendistato (peraltro riformato dal precedente Governo sulla base di una larga intesa con Regioni e parti sociali)  come contratto di lavoro da utilizzare in maniera prevalente per l’accesso al lavoro. Questo obiettivo non trova rispondenza nel documento del Consiglio dei ministri, dove  viene prevista l’introduzione di un limite oggi non esistente (l’obbligo di trasformare una percentuale  di almeno il 50% degli apprendisti) come condizione per potersi avvalere in futuro di questa tipologia. Sono  altresì  fissati  un periodo di durata minima e l’impossibilità della cessazione prima della scadenza. Vengono poi posti dei limiti, di fatto, allo svolgimento della attività di formazione all’interno dell’azienda.
 

Part time

Analoghe perplessità suscitano la modifica proposta in materia di part time; si stabilisce di reintrodurre la comunicazione amministrativa per i casi di utilizzo delle clausole elastiche e flessibili, per quanto riguarda in particolare l’orario di lavoro, nonostante che questa tecnica si sia storicamente rivelata fallimentare (nessun abuso è stato mai prevenuto da un modulo). Si tenga presente che nei paesi in cui è più elevata l’occupazione femminile vi è anche un maggiore utilizzo del part time.

Collaborazioni e partite IVA

La scure del Governo si abbatte anche sulle tipologie contrattuali considerate più permeabili ad abusi e illeciti, le collaborazioni coordinate a progetto e le partite Iva. Paradossalmente, le misure dedicate a questi contratti, nonostante siano quelle più attese, sembrano meno efficaci di quelle destinate ai contratti di tipo subordinato. Per il lavoro a progetto, si propongono alcune modifiche normative (l’eliminazione del programma di lavoro, la riduzione della facoltà di recesso libero) e l’aumento dei costi contributivi (di ben 6 punti entro il 2018), che già sono state sperimentate in questi anni con scarsi risultati. E’ appena il caso di far notare che questa operazione finanzia in gran parte la riforma degli ammortizzatori sociali senza riconoscere ricadute positive in termini di prestazioni ai cocopro, per il quali rimane in vigore solo la indennità una tantum, in caso di perdita del lavoro, istituita dal ministro Sacconi. Inoltre, si prevede, in taluni casi, l’introduzione di una presunzione  di subordinazione: questa misura è dibattuta da anni dai giuristi del lavoro, in quanto è sospettata di possibile incostituzionalità.

Anche con riferimento alle partite Iva, viene introdotta  una presunzione di subordinazione, nel caso di rapporti che durano più di 6 mesi, se un singolo committente garantisce almeno il 75% dei corrispettivi. Si tratta di una misura draconiana che avrebbe un impatto del tutto irrazionale su migliaia di situazioni, che si svolgono nella più assoluta regolarità. Infine, si ipotizza di restringere l’utilizzabilità dell’associazione in partecipazione con apporto di lavoro ai soli casi in cui gli associati di lavoro siano solo  famigliari, e di contenere l’utilizzabilità del lavoro accessorio, senza considerare che ha dato – con i voucher –  ottimi risultati in alcuni campi caratterizzati da grossa incidenza del lavoro nero. Infine, il Governo ammazza le esperienze di bilateralità, in quanto i contributi per i fondi interprofessionali vengono in parte dirottati al finanziamento dei fondi di solidarietà, istituiti allo scopo di erogare una sorta di extraliquidazione a coloro che perdono il posto di lavoro in età matura.

Conclusioni

 L’effetto finale di queste misure è che la convenienza relativa tra i contratti flessibili sostenibili (apprendistato, rapporti a termine, ecc.) e i contratti a rischio di precarietà (collaborazioni e partite iva irregolari) non cambia, mentre cresce la complessità e la rigidità complessiva del mercato del lavoro.
Si prenda, a titolo di esempio, il caso degli associati in partecipazione, la cui tipologia è praticamente soppressa salvo che si tratti di famigliari. Sono alcune centinaia di migliaia. C’è forse qualcuno in grado di intendere e volere che immagina onestamente che basti una norma per stabilizzare questi posti di lavoro? Non è più realistico e probabile che gli stessi vengano a mancare? 

* in collaborazione con Gianni Bocchieri