La riforma delle relazioni industriali è il punto di forza della manovra

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La riforma delle relazioni industriali è il punto di forza della manovra

18 Agosto 2011

La manovra ha riformato le Relazioni Industriali. Lo ha fatto decisamente, anche se non del tutto compiutamente. Lo ha fatto infatti legittimando soltanto in parte l’opting out dal contratto collettivo nazionale (ccnl). Ossia consentendo soltanto in alcune specifiche ipotesi la disapplicazione del ccnl per lasciare la disciplina del rapporto di lavoro esclusivamente in mano alle intese aziendali o territoriali, peraltro con l’ulteriore facoltà di derogare anche alle relative norme di legge. La novità, tuttavia, oltre a salvare la Fiat dalla querelle giudiziaria con la Fiom sugli interventi di Pomigliano, Mirafiori e Grugliasco, produce il beneficio di offrire maggiori opportunità di investimento in Italia, di aumentare la competitività delle imprese e, quindi, l’occupazione.

Non se ne è parlato se ne è parlato troppo poco nella gran confusione di proclami, a favore e contro, sulle misure di risanamento del bilancio pubblico, seguita alla pubblicazione del decreto n. 138 (la manovra) l’antivigilia di Ferragosto. Eppure l’articolo 8 del provvedimento in vigore dal 13 agosto (“Sostegno alla contrattazione collettiva di prossimità”) è un deciso e netto cambiamento di rotta dato dal ministro del lavoro, Maurizio Sacconi, alla disciplina delle Relazioni Industriali.

Sull’argomento l’ultima puntata risale all’Accordo Quadro del 28 giugno (meno di due mesi fa), sottoscritto da tutte le Parti sociali. Un Accordo, tuttavia, che per quanto celebrato come un assoluto successo, nulla ha modificato nella sostanza della “contrattazione” tra imprese e sindacati. E che sulla questione cruciale, cioè sulla possibilità di adottare intese a misura di azienda, è andato addirittura controcorrente perché, piuttosto che aprire agli accordi territoriali, ha invece rimarcato i confini dell’azione sindacale aziendale: tutto è possibile ma solo e soltanto se prima abbia avuto una delega espressa dalla contrattazione nazionale (il ccnl).

La manovra adesso raddrizza la situazione. Due le novità: 1) la (parziale) legittimazione dell’opting out; 2) l’estensione della validità delle intese aziendali sottoscritte prima del 28 giugno (cioè prima dell’Accordo quadro) a tutti i lavoratori dell’azienda, purché approvate con votazione a maggioranza degli stessi lavoratori (è la norma salva Fiat).

Tralascio la seconda per soffermarmi sulla prima novità. Con essa si legittimano i contratti aziendali o territoriali a regolamentare le materie inerenti l’organizzazione del lavoro e della produzione, ma a una condizione. Ossia a condizione che le intese siano finalizzate a maggiore occupazione; qualità dei contratti di lavoro; all’emersione del lavoro irregolare; ad incrementi della competitività e del salario; alla gestione delle crisi aziendali e occupazionali; agli investimenti e all’avvio di nuove attività. Quindi non sempre, ma soltanto nei casi in cui le intese siano indirizzate a una o più delle predette finalità – perciò l’opting out è soltanto parziale – le intese aziendali o territoriali possono regolamentare, in deroga ai ccnl e alle norme di legge: a) gli impianti audiovisivi e l’introduzione di nuove tecnologie; b) le mansioni del lavoratore, la classificazione e l’inquadramento del personale; c) i contratti a termine, i contratti a orario ridotto, modulato o flessibile, il regime della solidarietà negli appalti e i casi di ricorso alla somministrazione di lavoro; d) la disciplina dell’orario di lavoro; e) le modalità di assunzione e disciplina del rapporto di lavoro, comprese le co.co.co. a progetto e le partite Iva, la trasformazione e conversione dei contratti di lavoro e le conseguenze del recesso del rapporto di lavoro (incluso l’“articolo 18”), fatta eccezione per il licenziamento discriminatorio e il licenziamento della lavoratrice in concomitanza del matrimonio.

La scelta di riconoscere per legge l’opting out è stata ottima. Sono tutte d’oro le occasioni previste per la legittimità delle intese territoriali, e tutte anche ampiamente adattabili alle esigenze aziendali. Qualche preoccupazione, tuttavia, resta; e avrebbe suggerito, magari, di fare qualcosa di più oppure diversamente. Per esempio c’è una preoccupazione sul “confine” di legittimità: l’intesa aziendale indirizzata alla maggiore occupazione resterà legittima per il solo fine perseguito oppure dovrà necessariamente arrivare a predeterminati obiettivi? La risposta ovviamente è: vale quanto verrà precisato dalla stessa intesa! Ma è proprio questo il punto: basterà ciò a scampare dal pericolo che, successivamente, un Giudice non possa decidere in maniera diversa? Spiego meglio. Le intese aziendali potranno anche derogare alla norma sul reintegro al posto di lavoro (articolo 18): si è certi che il “diritto” alla stabilità del posto di lavoro non venga fatto prevalere comunque su qualunque intesa aziendale, come diritto indisponibile dei lavoratori e quindi dei Sindacati? In questo caso, dunque, soluzione migliore sarebbe stata quella di un intervento legislativo diretto a limitare le tante negatività dell’articolo 18.

Inoltre una perplessità. Sorprende l’arruolamento, tra i punti regolamentabili dalle future intese, dei lavoratori con le “partite Iva” non meglio precisati. Fino a prova contraria, se hanno una partita Iva, si tratta di lavoratori “autonomi”, come tali liberi da qualsiasi ordine di scuderia sindacale. A meno che non si voglia offrire al Sindacato – e sarebbe un grave errore – la possibilità di “contrattare” con l’azienda il ricorso alle prestazioni dei soggetti autonomi (appunto, quelli con partita Iva): più che un’opportunità, in tal caso, si tratterebbe di un severo rischio di “ingessare” la produzione vincolandola alle preferenze del Sindacato.  

Questi dubbi non minano certo l’efficacia dell’azione riformatrice decisa dal ministro del lavoro: sono misure favorevoli a nuovi investimenti, alla competitività delle aziende, alla ripresa economica e, dunque, anche all’occupazione. Nel mare di scontenti e di lagnosi rimbrotti verso il Governo (incluso quello di chi scrive) per una manovra di tasse e di promesse non mantenute, la riforma delle Relazioni industriali è l’unica prova (e speranza!) che attesta che la volontà governativa è ancora votata all’ammodernamento. Infatti, se è vero (come è vero) che le ragioni dell’inerzia – causa di declino sociale ed economico – hanno a che fare con l’abitudine di mantenere le cose come stanno per paura del cambiamento, con questa misura il Governo ha dimostrato esattamente il contrario.