La rigidità del mercato del lavoro è il vero ostacolo per i neo-laureati

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La rigidità del mercato del lavoro è il vero ostacolo per i neo-laureati

07 Marzo 2012

Avere una laurea in tasca non esonera dalla trafila della precarietà. Ad un anno dall’acquisizione del titolo di studio, infatti, la stabilità (cioè il posto fisso, a tempo indeterminato) interessa meno della metà di coloro che sono riusciti a trovare un’occupazione (42,5%). Il dato, fornito dal XIV Rapporto Almalaurea sulla condizione occupazionale dei laureati italiani, pone l’interrogativo sulle sue cause di evidenza: perché le imprese trovano difficoltà ad assumere in via definitiva giovani che, tutto sommato, sono al top della formazione? Proviamo a cercare la risposta più probabile tra quelle possibili.

La ricerca Almalaurea ha coinvolto circa 400 mila laureati, con una partecipazione molto elevata di intervistati, quasi 186 mila laureati del 2010 (più di 113 mila di primo livello; circa 54.300 biennali specialistici; quasi 16 mila a ciclo unico, ovvero i laureati in medicina, architettura, veterinaria e giurisprudenza), ossia l’88% fra i laureati a un anno, intervistati nel corso del 2011. In breve sintesi, il rapporto conferma la difficile condizione occupazionale dei laureati nel quadro di generale difficoltà in cui versa complessivamente il mercato del lavoro.

Spiega che lievita la disoccupazione (ad un anno dalla laurea), passando dal 16 al 19% per i laureati triennali, dal 18 al 20% per quelli specialistici e dal 16,5 al 19% per quelli a ciclo unico. Conseguentemente, cala il tasso di occupazione (ad un anno dalla laurea): quello dei laureati triennali è pari al 69% (– 9%), quello dei laureati specialistici biennali al 57% (– 6%) e del 37% quello dei laureati a ciclo unico (– 9%). Sul dato occupazionale, tuttavia, occorre tener conto di un “correttivo”, ossia del fatto che non si considera occupato il laureato impegnato in eventuali attività formative.

Infatti, il dato discosta da quello medesimo dell’Istat dell’indagine sulle forse di lavoro, dove vengono considerati occupati anche quanti sono impegnati in attività formative retribuite; cosicché, il tasso di occupazione migliora considerevolmente, portandosi al 73% fra i laureati triennali (– 3% rispetto all’anno precedente; – 10% rispetto al 2008), al 72% fra gli specialisti biennali  (– 2% rispetto all’anno precedente; – 8% rispetto al 2008) e al 62% fra quelli a ciclo unico (– 3% rispetto all’anno precedente; – 18% rispetto al 2008).

Lo scostamento è dovuto proprio al fatto che, nel dato Almalaurea, non si tiene conto che tra i laureati di primo livello c’è una quota consistente che dichiara di proseguire un lavoro in corso precedentemente al conseguimento della laurea; che tra i laureati di secondo livello, una quota consistente è impegnata in attività di formazione anche retribuite; e che, infine, tra i laureati specialisti molti sono impegnati in tirocini o praticantati, oppure stanno svolgendo dottorati di ricerca o stage in azienda.

In merito alla tipologia di occupazione, il rapporto Almalaurea spiega che, con la sola eccezione dei laureati specialistici a ciclo unico, a distanza di un anno dall’acquisizione del titolo, diminuisce, fra i laureati occupati, il lavoro stabile. In particolare, la stabilità riguarda il 42,5% dei laureati occupati di primo livello (– 4% rispetto al 2010) e il 34% di quelli specialistici (– 1% rispetto al 2010). Contemporaneamente, spiega ancora il rapporto, si dilata la consistenza delle forme contrattuali a tempo determinato e interinale (definite lavoro non standard), del lavoro parasubordinato e del lavoro nero (cioè laureati senza contratto). Quest’ultimo è quello che appare come il dato più preoccupante, poiché interessa il 6% dei laureati di primo livello, il 7% degli specialisti e l’11% di quelli a ciclo unico.

Arriviamo così all’interrogativo posto in premessa: perché le imprese trovano difficoltà ad assumere in via definitiva giovani che, tutto sommato, sono al top della formazione? Interrogativo che può essere posto anche in maniera indiretta: perché i giovani trovano difficoltà a trovare un’occupazione definitiva, nonostante un bagaglio formativo tutto sommato al top? Tra le possibili risposte, una è relativa alla necessità di chi assume (le imprese) di testare il futuro collaboratore aziendale. Prima di vincolarsi per la vita, insomma, alle imprese serve provare il giovane per un periodo più o meno lungo di rodaggio o, per dirla in termini tecnici, “di prova”.

Certo, le imprese potrebbero ricorrere al periodo di prova disciplinato dai contratti collettivi; ma questo è generalmente previsto per durate troppo brevi, senza peraltro proteggere l’impresa (almeno quanto un contratto non standard) da eventuali rivendicazioni di lavoratori e Sindacati (si legga impugnazione della “promessa” di assunzione). Inutile girarci attorno: la questione scaturisce dall’art. 18 dello statuto dei lavoratori. Se non esistesse, infatti, quel periodo più o meno lungo di rodaggio potrebbe essere normalmente svolto in regime di “contratto di lavoro dipendente a tempo indeterminato”, con il pieno di tutele (retributive, contributive e di sicurezza) per il giovante lavoratore.

Ecco dove sbagliano i sindacati: continuano a danzare attorno al totem della stabilità, ignari (o forse no?) che una pioggia di “meno diritti e meno tutele” colpisce intanto e soltanto i lavoratori. Il peggio poi è la soluzione che propongono: innalzare il costo del lavoro flessibile. Quando davvero dovesse accadere che il co.co.co. costa più del contratto a tempo indeterminato, allora ci ritroveremo qui a commentare non più un periodo di precarietà prima della stabilità per i giovani laureati (o meno), ma di “lavoro nero”.