La rivolta arriva a Tripoli e il clan di Gheddafi promette riforme

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La rivolta arriva a Tripoli e il clan di Gheddafi promette riforme

20 Febbraio 2011

La cupola plumbea della censura mediatica soffoca la rivolta in Libia. Internet e i social network sono stati oscurati.  I media tradizionali sono controllati del regime che vuole occultare le proteste. Da Al Jazeera arrivano accuse che la Libia avrebbe tentato di oscurare tutte le telecomunicazioni con potenti apparecchiature di interferenza dei satelliti. Ma le poche notizie che filtrano compongono  ormai il quadro di una carneficina. Human Rights Watch alza a 104 il numero di morti registrati a Bengasi in quattro giorni di scontri fra manifestanti anti-regime e forze di sicurezza. Le cifre riferite da fonti giornalistiche sono ancora più allarmanti. Il sito del quotidiano britannico Independent segnala la circolazione di "altre informazioni", secondo cui ci sono "200 morti e più di mille feriti". 

Secondo la televisione del Qatar, l’esercito ha sparato razzi Rpg sui manifestanti nella città epicentro della rivolta e tradizionalmente ostile a Muammar Gheddafi. Sabato almeno 12 persone sono state uccise quando cecchini hanno sparato sulla folla che partecipava a un corteo funebre.  Proteste anche nella città di Misrata, a 200 chilometri da Tripoli, dove le forze di sicurezze sarebbero state affiancate da mercenari africani che avrebbero sparato indiscriminatamente sulla folla.

Attraverso il sito Lybia Al Youm, gli ospedali hanno lanciato un appello perché dicono di non essere più in grado di gestire i feriti. Intanto l’Unione europea ha riferito di vere e proprie “minacce” arrivate da Tripoli che avrebbe convocato oggi l’ambasciatore ungherese, presidente di turno dell’Unione, per riferire che il Paese non è più disposto a collaborare sul fronte dell’immigrazione se l’Europa continuerà a sostenere i manifestanti. Minacce simili, ha sempre riferito l’ambasciatore, sarebbero arrivate anche ad altre rappresentanze Ue in Libia.

Il Paese del Colonnello è in preda ad una contestazione senza precedenti contro un potere che dura da più di 40 anni e sta cercando di resistere alle proteste libertarie scoppiate sull’onda delle rivolte in Tunisia ed Egitto. Il leader libico ha reagito con la forza schierando la polizia in forze. In un primo momento il rais aveva deciso di non far scendere in piazza i propri sostenitori (che non sono pochi) per affrontare il cortei antiregime. Ma nei giorni seguenti la situazione è precipitata. Le rivolte stanno mettendo a rischio la stessa sopravvivenza della Jamahiriya. Le manifestazioni che fino a pochi giorni fa radunavano poche centinaia di attivisti ed erano concentrate a Bengasi, stanno diffondendosi in altri centri della Cirenaica. Anche a Derna, 350 chilometri dalla città al centro della rivolta, secondo testimoni la situazione è drammatica.

Anche se in Libia non si osservano livelli di miseria paragonabili a quelle che affliggono gli altri Paesi del Maghreb, molti giovani soffrono la crisi, visto che per almeno il 30% sono disoccupati. La caduta di Mubarak e Ben Ali ha dato coraggio ai giovani libici che però per avere successo dovranno coinvolgere almeno parte delle Forze armate, ancora compatte attorno al leader, che ha voluto strutturarle lungo linee tribali per meglio controllarle. Altrimenti, l’insurrezione di Bengasi finirà come altre precedenti rivolte in un bagno di sangue. Ma la crisi ha inasprito la spaccatura nel clan del Colonnello. Secondo il quotidiano Quirina, che appartiene a uno dei figlio di Gheddafi, Seif al Islam, dovrebbe tenersi una riunione urgente del Congresso generale del popolo “per adottare riforme in tema di decentralizzazione e sostituire alcuni ufficiali del governo”. E’ un messaggio abbastanza minaccioso ed esplicito al capo del governo, Al Baghdadi Ali Al Mahmoudi, che capeggia la componente più conservatrice del regime.

L’onda lunga delle proteste che stanno squassando il mondo arabo rischia di stravolgere la mappa del potere libico. Secondo molti analisti la lotta tra due dei figli di Gheddafi, Seif “il riformista” e Motassem, più conservatore e vicino alla vecchia guardia, si sta acuendo. Seif controlla la Nco (National Oil Corp), società che opera nel settore petrolifero e che gli conferisce un vastissimo potere economico. Si adopera da anni per convincere il padre a varare riforme per liberalizzare l’economia per attirare investimenti stranieri, soprattutto nel settori petrolifero. Inoltre ha chiesto più volte di varare politiche sociali e riforme della costituzione per garantire una più equa ripartizione dei proventi del settore energetico.

Ma l’immagine “liberale” di Seif ha subito un duro colpo quando nel 2009, la sua organizzazione non governativa, la “Gheddafi International Charity and Development Foundation” ha condannato gli abusi del regime facendo infuriare i militari. Da allora cha dovuto giocare sulla difensiva. Il fratello Motassem, consigliere nazionale per la sicurezza, lo ha costretto a lasciare la Nco. Con l’appoggio dei militari e del sodale al-Mahmoudi  si è subito inventato il Supremo Consiglio per gli Affari Esteri. Una nuova struttura governativa in grado di controllare la Nco. Adesso per Seif le proteste sono un’opportunità per distinguersi dalla vecchia guardia e per promuovere riforme, seppur moderate, per garantire il sostegno al regime e guadagnarsi il favore della popolazione. Tuttavia anche se la battaglia trai due si fa più accesa i movimenti di opposizione non sembrano abbastanza organizzati per avvantaggiarsi da questa spaccatura.

La Libia non è l’Egitto dei Fratelli Musulmani e non è la Tunisia che odiava Ben Ali e la sua corte di affaristi. Muammar Gheddafi non ha fama di corrotto. Ha usato i proventi del petrolio per cementare il consenso del suo popolo e  può contare su un certo grado di adesione alla sua ideologia, quel originale “socialismo arabo” (sua definizione), con tinte di nazionalismo pan-arabo, che ha plasmato la Grande Jamahirya.  Questa indubbia sapienza politica non gli consente di gestire in tranquillità l’inevitabile successione, che il Colonnello aspirerebbe mantenere all’interno della famiglia. In queste condizioni l’ipotesi di una Libia senza il suo  creatore e padrone è uno scenario ancora troppo carico di incognite con riflesso molto rilevanti anche sull’Italia.