La “rivoluzione culturale” in Palestina è ancora molto lontana
10 Maggio 2010
Nel fine settimana l’Autorità nazionale palestinese si è riunita decidendo di riprendere il dialogo, per ora indiretto, con Israele: i "proximity talks". La mediazione dell’inviato speciale americano Mitchell ha ottenuto quindi il primo risultato concreto da quando è iniziata la politica obamiana dei piccoli passi: sbloccare lo status quo successivo a "Piombo Fuso", la guerra di Gaza, che aveva interrotto i rapporti fra le rispettive diplomazie, e ricreare le condizioni per le trattative del processo di pace. Hamas, che continua a controllare la Striscia, ha contestato duramente la decisione di Abu Mazen. La spaccatura all’interno del mondo palestinese, dunque, non è finita. Esistono "due" palestine, ognuna con la sua politica verso Israele.
Nel corso di decenni, l’OLP è riuscita a fare molto per i palestinesi. E’ passata da una prima fase di "nativismo armato" ad una seconda fase partitica, nazionalista, in grado di promuovere la ‘causa’ a livello planetario, immune alle concessioni diplomatiche; poi, con la costituzione dell’Autorità Nazionale, si è cominciato a dare delle fondamenta istituzionali all’idea di Patria, costruendo un edificio ancora debole, ma che un giorno, come ha detto Netanyahu, diventerà lo stato palestinese.
Mitchell per adesso non si cura di Gaza, concentrandosi sulla West Bank, ma in realtà anche fra i negoziatori dell’ANP scarseggiano le idee nuovea. La stessa decisione di riprendere i talks sembra un modo per sfruttare la lentezze e le indecisioni americane: farsi avanti, mostrarsi disponibili al negoziato, per poi tirarsi indietro la momento giusto. Una strategia nota quella palestinese, un po’ meno se pensiamo agli Usa. Guardando le immagini dell’ultima riunione dell’ANP, quella in cui è stato dato il via libera ai talks, ci renderemo conto che l’età media dell’esecutivo di Abu Mazen è sulla sessantina d’anni, e anche di più, il che vuol dire che si tratta di uomini politici che appartengono, ideologicamente e dal punto di vista della loro storia personale, a una generazione vecchia, prigioniera di una visione datata del conflitto, che non è detto coincida più con i bisogni materiali del popolo palestinse.
I leader usano parole d’ordine stonate rispetto al vocabolario di cui avrebbe bisogno una moderna democrazia, nel momento in cui sta costituendo come stato. Perfino i "maverick" della politica palestinese, come l’intellettuale e attivista Barghouti (secondo solo ad Abu Mazen nelle ultime elezioni), che si definisce un nonviolento e viene corteggiato dalla grande stampa internazionale (di questi giorni una lunga intervista a Foreign Policy), ricorrono ai soliti cliché sulla resistenza palestinese: l’apartheid, un repertorio che non ha perso il suo appeal ma sembra ormai separato dall’attualità, dalle esigenze della Palestina di domani (quelle della crescita economica, ad esempio).
I giovani palestinesi lamentano l’incapacità delle classi dirigenti di trovare soluzioni nuove a problemi antichi. Il malumore cresce e questo potrebbe essere il segno che qualcosa è destinato a muoversi: una ‘rivoluzione democratica’ in Palestina? Riconoscere che Isreale è uno stato ebraico? Rompere l’unità palestinese puntando su un accordo separato che escluda Hamas? Sono solo alcune domande, nell’eventualità che i proximity talks possano sbocciare in un vero negoziato tra palestinesi e israeliani.