La  ‘rivoluzione’ dei Tea Party punta a ribaltare gli schemi. Non solo negli Usa

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La ‘rivoluzione’ dei Tea Party punta a ribaltare gli schemi. Non solo negli Usa

23 Settembre 2010

A una quarantina di giorni dalle elezioni di medio termine, e a primarie chiuse, è tempo di un primo (parzialissimo) bilancio. A giudicare dalla stampa di cui gode, il movimento dei “Tea Party” va a gonfie vele. Mai, infatti, si è visto un simile ciclone di attacchi, improperi, persino insulti. Segno che i “Tea Party” colgono nel segno.

Ora, che sono così capiti negli Stati Uniti è abbastanza ovvio. Il movimento sta letteralmente mettendo in crisi ogni semplicistica received notion in campo politico, sta scompaginando i déjà vu di cui vive certa politologia, sta rimescolando tutte le carte con una determinazione e una rapidità che nessuno aveva previsto. Il concetto stesso di bipartitismo dovrà essere, in quel Paese, completamente riveduto. Il Partito Repubblicano ne è ormai quotidianamente messo alle corde e il Partito Democratico si sta scontrando con un avversario che è potenzialmente in grado di seppellirne sotto metri di terra utopie e danni. Soprattutto il movimento sta giocando in prima persona le idee più politicamente scorrette che vi siano e lo fa con un candore disarmante le legioni di cinici che appestano il mondo.

Ma che la caccia mass-mediatica ai “Tea Party” si sia scatenata in modo trasversale, bipartisan e rabbioso pure in Italia è cosa meno scontata. Per mesi la stampa nostrana ha descritto i “Tea Party” come un fenomeno libertario di pura rivolta fiscale (come se di per sé si trattasse di un’onta…), un movimento estremista motivato solo da interessi di bottega e da tornaconto personale. Poi, anche se non si è mai capito quale film stesse prima vedendo, quella stessa stampa ha improvvisamente mutato registro gridando all’“integralismo”. Di colpo i “Tea Party” sono cioè divenuti l’antro dei bigotti che rischiano di mandare all’aria tutto in nome di convincimenti improponibili e “medioevali”. Curioso. Curioso, ma tipico della nostra stampa disinformante e dei suoi lettori dalla memoria inesistente.

La chiave di volta vera è infatti l’incapacità strutturale del nostro mondo “adulto” anche solo d’immaginare un movimento popolare capace di travolgere il Paese più ricco e potente del mondo mettendo in campo la schiettezza di una visione del mondo autenticamente umanista (cioè a misura di uomo) la quale per ciò stesso protesta a gran voce contro la rapina liberticida praticata da un fisco ingiusto nel momento stesso in cui denuncia l’immoralità cronica di una politica che con quel furto si finanzia per rimbecillire i cittadini in nome del più frusto relativismo. Bene inteso: quando a quelle latitudini si parla di moralità e immoralità non si tratta affatto di quello specchietto per le allodole che è stata la “questione morale” da noi tanto cara al Partito Comunista Italiano; si difende quella cosa molto più seria e imbarazzante che sono i “princìpi non negoziabili”, anche attraverso la richiesta 1) principiale 2) sanamente strumentale di una tassazione più adeguata. Realtà impossibile, dunque, incomprensibile da noi. Da noi, infatti, al massimo qualcuno inveisce contro lo statalismo e qualcun altro difende vita e aborto, ma mettere assieme, collegare le due cose no, verboten, manca la testa, mancano le braccia, mancano le gambe. Negli Stati Uniti questo accade invece da tempo e oggi i “Tea Party” riescono a interessarne direttamente i palazzi non sacri della politica nazionale.

Uno studio intelligente realizzato sul campo dal giornalista del National Journal di Washington Jonathan Rauch [http://www.nationaljournal.com/njmagazine/cs_20100911_8855.php] mostra bene come e perché questo sia oggi possibile ai “Tea Party”. I “Tea Party” sono efficaci e dirompenti perché agiscono come commando. Indipendenti, persino isolati, sempre privi di cabine di regia e impermeabili a ogni critica poiché votati anima e corpo e cuore alla causa, i “Tea Party” si organizzano da sé, reagiscono alle provocazioni, colpiscono e poi spariscono. Poi tornano, e di nuovo in fretta scompaiono. E così via, a oltranza. Sono come Cincinnato, il nobile condottiero romano sordo alle sirene del potere che corrompe il quale rimise il mandato subito dopo aver compiuto l’opera per il bene comune (per ciò negli Usa gli han intitolato nomi di città). Sono come i controrivoluzionari vandeani, che attaccavano i giacobini per immediatamente tornare ad attendere i propri campi. Sono i cittadini-soldati della tradizione coloniale nordamericana, pronti anche solo in un minuto vestiti di ciò che hanno indosso e sotto il braccio la carabina da caccia. Ma la cosa più impattante e inedita (diciamolo pure: più sconvolgente) è che fanno tutto questo senza essere dei maquis infingardi né usare la vigliaccheria di Al Qaeda: agiscono, i “Tea Party” alla luce del sole, a volto scoperto, van sui giornali e in tivù, si muovono democraticamente. Persino nelle urne, nelle quali mettono schede e non bombe. Battono cioè il nemico usando le sue stesse armi. I “Tea Party” sono un popolo intero che insorge in nome di un codice unitario, un ethos comune, una coscienza individualmente collettiva che sbigottisce perché nessuno ne ricorda più l’esistenza. Sono, i “Tea Party”, l’insorgenza del senso comune, sempre patrimonio della sanior pars del Paese oggi forse persino della maior. Questo, per moltissimi, è troppo; per tutti gli altri fantascienza.

E vabbè, si dirà; ma perché mai tutto ciò dovrebbe disturbare anche a miglia e miglia di distanza? Facile. Perché i “Tea Party” pongono un precedente, dimostrano che è possibile. E non in una valle interna e nascosta del Belucistan, con tutto il rispetto del Belucistan, delle sue valli e dei suoi abitanti. Ma nientepopodimeno che nel cuore del Paese più avanzato, tecnologico, istrionico del mondo, gli Stati Uniti d’America. Avendo capito che i “Tea Party” sono l’onda anomala capace di travolgere qualsiasi normalizzazione, è partita la contraerea, che però è difficile da usare in casi così senza causare migliaia di vittime collaterali e abbattere gli alleati di fuoco amico. Difficile, fuor di metafora, prendere in castagna i “Tea Party” per esempio in Italia senza ferire a morte il feticcio di ogni buon democratico attuale, Sua Maestà il voto popolare. Venne detto che nel 2000 quello della Florida fu un pasticciaccio, si è detto che finalmente nel 2008 il dio della sovranità popolare si destò da quel lungo torpore che lo aveva preso all’inizio del secolo appianando ogni diverbio mediante abluzione nelle acque miracolose delle urne elettorali che portarono alla Casa Bianca Barack Hussein Obama, come si fa ora ad affermare che i milioni di persone e di voti liberi che si chiamano“Tea Party” non contano, sono solo il colpo di mano di qualche sciagurato o quello di coda di certi fanatici?

Fra le contromisure adottate dalla stampa nostrana ecco poi il lancio di falsi bersagli. I “Tea Party”, si scrive, sono un suicidio perché i loro candidati estremisti riusciranno solo a far perdere il Partito Repubblicano. Embé?, rispondo milioni di voti dei “Tea Party” e con loro un gran conservatore nonché senatore Repubblicano del South Carolina come James Warren “Jim” DeMint per il quale è molto meglio che il suo stesso partito perda piuttosto che perpetuare la farsa dei falsari al Congresso [http://www.theblaze.com/stories/demint-id-rather-lose-fighting-for-the-right-cause/]. A che serve, dicono i “Tea Party” animati da milioni di voti stufi di turarsi il naso, premiare un Repubblicano se questi è solo poco diverso da un Democratico?

La differenza tra noi e loro è questa. Là la Destra di popolo non si accontenta. Un libro come 2010: Take America Back. A Battle Plan (HarperCollins, New York) scritto dal popolare commentatore politico Dick Morris e da Eileen McGann, avvocato di grido, sua moglie, consiglia ai Repubblicani e ai loro amici ovunque nel mondo di pensare a qualcosa di più sostanzioso che non la semplice e stucchevole demonizzazione in stile “dipietrista” o “bersaniano” o “finiano” (comunque la pensino) qualora avessero intenzione di restare in circolazione ancora per un po’. Farebbero tutti meglio ad ascoltarlo, Morris è uno che sa il fatto suo. Per 20 anni è stato amico e consigliere dei Clinton, e alla fine ha deciso di smettere riuscendo a disintossicarsi. Ora si fa di tè, non di fumo Repubblicano. Preferisco vivere? Preferisco il paradiso.

Marco Respinti è presidente del Columbia Institute [www.columbiainstitute.it] e direttore del Centro Studi Russell Kirk [www.russellkirk.eu]