La rivoluzione democratica non è morta, il regime non ha ancora vinto

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La rivoluzione democratica non è morta, il regime non ha ancora vinto

27 Febbraio 2010

Negli scorsi dieci giorni c’è stata una gran quantità di “analisi specialistiche” secondo le quali il Movimento Verde in Iran è stato completamente spazzato via e il regime ha ormai preso il pieno controllo degli eventi nel paese. Ciò viene in seguito a due precendenti periodi di “unanimità”. Nel primo di questi si sosteneva che non vi fosse alcuna possibilità di una rivoluzione in Iran; la convinzione comune era questa, anche dopo l’esplodere della reazione contro il regime in seguito ai fraudolenti risultati elettorali annunciati il 12 giugno 2009. È poi venuto un altro periodo, più recente e più breve, nel quale il successo della rivoluzione era considerato inevitabile.

Il primo è stato definitivamente ridotto in frantumi dagli otto mesi di continua lotta contro il regime; il secondo è il riflesso di una commovente fede nelle immense e impersonali forze della storia e, al tempo stesso, di dati empirici. L’Iran si trova in una crisi rivoluzionaria, e vi è stato per molti anni, ma il risultato sarà determinato dalle decisioni dell’uomo, molte delle quali sono imprevedibili.

Nel frattempo, come abbiamo visto così tante volte, accadono molte cose delle quali non veniamo a sapere nulla. I fatti dell’11 febbraio – la massiccia repressione nelle strade, la violenza sanguinosa nei confronti dei leader del Movimento Verde e delle loro famiglie – sono state descritte come una severa sconfitta dell’opposizione e come un trionfo del regime. Thomas Erdbrink, l’uomo del Washington Post a Teheran, ne fornisce un esempio da manuale. Tuttavia, il leader supremo non la vede a quel modo, e probabilmente dei fatti di quel giorno sa molto di più dei corrispondenti esteri. I quali, peraltro, erano trattenuti in una piccola parte di Teheran e sotto la costante sorveglianza delle guardie del regime. Il 12 febbraio Khamenei ha parlato a diverse centinaia dei suoi assistenti e sostenitori bistrattandoli per quello che egli considerava il grande fallimento del giorno precedente. Per quale motivo? Perché Khamenei aveva chiesto una massiccia dimostrazione di appoggio per il regime, e questa non si era verificata.

Per non sbagliare, i leader del regime erano andati proclamando che decine di milioni d’iraniani avevano dimostrato la propria fedeltà alla Repubblica Islamica, ma i video e le immagini di Google Earth dimostrano che si trattava delle solite bugie. E allora la rabbia di Khamenei si è concentrata sulla sua guardia pretoriana. Nei giorni scorsi, due alti funzionari sono stati rimpiazzati ed è probabile che altri li seguiranno: il generale Ali Fazli è stato destituito dalla carica di capo della brigata della Guardia Rivoluzionaria di Teheran (il suo successore è il generale Hosseini Motlagh) e anche il generale Azizollah Rajabzadeh, capo della polizia del Grande Teheran, è stato sospeso dal servizio dopo soli sei mesi. Durante la cerimonia di congedo ha fatto un grande sforzo per scaricare sulle Guardie la colpa sia dei fallimenti che dei massacri del mese scorso. E ha dichiarato che la polizia di Teheran “non ha ucciso una sola persona, non ha perduto un solo uomo e ha affrontato la questione con il minor numero possibile di perdite umane e finanziarie”.

Il che di certo sarà fonte di sorpresa per le famiglie dei dimostranti e della polizia che hanno perso persone care in seguito alla truffa elettorale dello scorso giugno.

La vulnerabilità dei leader ad attacchi di ogni genere è stata di recente dimostrata in vari modi. Non meno di due aerei militari sono precipitati e due treni che trasportavano truppe delle Guardie Rivoluzionarie sono deragliati. Nessuno crede che si sia trattato di semplici incidenti. In Kurdistan e Belucistan hanno avuto luogo diverse sparatorie. Il comandante delle guardie di confine, Hossein Zolqafari, ha annunciato che i “terroristi” sono stati respinti nei giorni precedenti all’11 febbraio. A chi lo ascoltava non ha detto che nove dei suoi uomini erano rimasti uccisi.

Intanto, il malcontento tra i lavoratori iraniani è cresciuto d’intensità. Sono stati costituiti nuovi sindacati (anche se i sindacati sono tutti illegali), e tre di questi hanno chiesto aiuto alla Commissione per i diritti umani delle Nazioni Unite. Il Sindacato degli autisti d’autobus di Teheran e Humeh (nella provincia di Lorestan), il Sindacato dei lavoratori di Neyshekar Hafttapeh e il Libero sindacato dei lavoratori iraniani hanno scritto alle Nazioni Unite per dire: “I funzionari di sicurezza della Repubblica Islamica hanno annunciato la propria aderenza ai protocolli internazionali. Nonostante questo fatto hanno però vietato nel paese la costituzione dei sindacati. Chiunque faccia parte di un’associazione sindacale verrà etichettato e perseguito come nemico della Repubblica Islamica”. Hanno denunciato che la paga minima è cinque volte inferiore alla soglia di povertà e hanno aggiunto: “Milioni di famiglie stanno disperatamente cercando di sopravvivere nelle condizioni più disumane perché i salari non vengono corrisposti in tempo”. E hanno proseguito: “Una massiccia ondata di disoccupazione e il rischio di licenziamento per i lavoratori ha reso la vita inimmaginabilmente infernale per le loro famiglie. L’unica maniera di venir fuori da condizioni tanto disumane richiede una essenziale ristrutturazione dell’economia e della società”.

Hanno fatto appello per la fine della pena capitale, per la scarcerazione degli attivisti sindacali incarcerati, per la libertà di parola, per il diritto di sciopero e per porre fine al lavoro minorile. Neanche i leader del Movimento Verde hanno abbandonato la lotta. Dall’11 febbraio, Mousavi e Karroubi si sono incontrati due volte, l’ultima sabato, quando ad essi si è unito un senior cleric e Ali Albar Mohtashemipour, il “padrino di Hezbollah”, il quale sarà ricordato per essere intervenuto in prima persona per convincere la Guida Suprema Khamenei a rilasciare il top adviser di Mousavi. Karroubi ha diffuso una dichiarazione molto forte con la quale chiede il diritto alla libertà di riunione e un referendum nazionale sulla legittimità del Consiglio dei Guardiani. In entrambi i casi si è trattato di provocazioni. Messo di fronte a tali difficoltà interne, il regime ha rafforzato il proprio appoggio ai nuclei terroristici, compresi gli Haqqanis e gli Hekmatiar in Afghanistan e ha dato ordine ai propri principali alleati internazionali (Hezbollah, Quds, Hamas, Jibril) di uccidere centinaia di ebrei in Nord Africa, Europa e Sud America.

Infine, entro un paio di giorni, Ahmadinejad compirà una visita di un giorno a Damasco per coordinare vari punti con Assad. C’è la questione delle richieste americane e francesi che vorrebbero che Assad collaborasse per ottenere il rilascio dei loro ostaggi. Poi c’è l’operazione congiunta Iran-Siria in Iraq finalizzata ad accrescere il livello di violenza e a finanziare gruppi politici filo-iraniani. Il terzo punto è il coordinamento del conflitto turco-iraniano contro i curdi, nel quale hanno interesse anche i siriani. E in ultimo discuteranno della nuova artiglieria e dei sistemi antiaerei che gli iraniani stanno consegnando. Morale della favola, il regime sta combattendo una guerra su due fronti. A casa temono i propri nemici. All’estero sono senza paura e intensificano l’offensiva.

© Faster, Please!
Traduzione Andrea Di Nino

Michael A. Ledeen è il Freedom Scholar della Foundation for Defense of Democracies (FDD) di Washington.