La rivoluzione khomeinista ha avuto un solo effetto: isolare l’Iran

LOCCIDENTALE_800x1600
LOCCIDENTALE_800x1600
Dona oggi

Fai una donazione!

Gli articoli dell’Occidentale sono liberi perché vogliamo che li leggano tante persone. Ma scriverli, verificarli e pubblicarli ha un costo. Se hai a cuore un’informazione approfondita e accurata puoi darci una mano facendo una libera donazione da sostenitore online. Più saranno le donazioni verso l’Occidentale, più reportage e commenti potremo pubblicare.

La rivoluzione khomeinista ha avuto un solo effetto: isolare l’Iran

Teheran – Come il 1979? L’assalto degli "studenti" iraniani all’ambasciata inglese di Teheran del 29 novembre scorso ha riportato subito alla mente quanto successo all’indomani della rivoluzione khomeinista, quando centinaia di giovani rivoluzionari fecero irruzione nell’ambasciata americana e tennero 63 persone in ostaggio per 444 giorni. E’ facile azzardare un paragone fra oggi e allora, ma le immagini dalla capitale iraniana con decine di uomini intenti a bruciare l’Union Jack sopra il cancello della sede diplomatica britannica non bastano a giustificarlo.

L’Iran prima della rivoluzione islamista era un Paese centrale nello scacchiere geopolitico mondiale, lo Shah Reza Pahlavi vantava rapporti economici e personali con le maggiori potenze occidentali e la società iraniana era aperta all’esterno, grazie al turismo, ai mezzi di comunicazione e ad un passaporto che quasi ovunque non subiva restrizioni. Adesso la Repubblica Islamica è alle prese con un isolamento internazionale senza precedenti: inserita dal 2008 nella lista degli “Stati canaglia” stilata dall’amministrazione Usa di George W. Bush, sottoposta ad un embargo internazionale per il suo programma di sviluppo nucleare che rende difficilissimo il commercio e le transazioni bancarie e finanziarie, condannata da ogni dove per le posizioni antisemite e negazioniste nei confronti di Israele.

Oggi come allora a pagare il prezzo più alto per la politica del suo Governo e le decisioni internazionali è sempre la popolazione iraniana. Il benessere e lo sviluppo propiziati dallo Shah erano privilegi per una minoranza degli iraniani, soprattutto per la classe medio-alta delle città, mentre nelle campagne permaneva l’analfabetismo e la mancanza di infrastrutture. Il laicismo imposto dalla dinastia Pahlavi, oltre alla corruzione e agli sfarzi di corte, continuamente ostentati in pubblico per accrescere il lustro della "grande Persia", non faceva altro che alimentare l’astio di una società gelosa delle sue radici e distante da un modello di vita troppo occidentale. Indossare il hijab era proibito, ma per molte donne avere la testa coperta da un velo era un segno di appartenenza e di rispetto di antiche tradizioni. Specialmente negli ultimi anni del suo regno Reza Pahlavi si lanciò in spese folli e populiste (beni di consumo, armamenti militari) che stridevano clamorosamente con una rete di servizi e di infrastrutture assai carente e con una disoccupazione e un’inflazione giunte a livelli non più controllabili.

La paura di perdere il potere aveva indotto lo Shah a rafforzare la polizia segreta, la Savak, che pattugliava giorno e notte le vie delle città con orecchie tese ad ascoltare qualsiasi critica, diretta o meno, al sovrano e ai suoi fedeli. Sempre attraverso la Savak e l’esercito, il regime si premurava di sedare qualsiasi tentativo di ribellione e di perseguitare ed arrestare gli avversari politici, dai sindacati agli intellettuali, dal partito comunista Tudeh agli ulema seguaci dell’ayatollah Khomeini, già costretto in esilio a Najaf, in Iraq prima e a Parigi poi. La rivoluzione che ne seguì aveva quindi un terreno fertile per coinvolgere attori diversi fra loro, tanto che molti degli osservatori internazionali che avevano salutato con entusiasmo il cambiamento iraniano, all’insegna di una maggiore libertà, non furono capaci di prevedere quello che sarebbe successo subito dopo.

La debolezza e le divisioni di molte componenti della rivoluzione, dai comunisti ai sindacati passando per gli intellettuali e l’esercito, favorirono la presa egemone del potere da parte del clero religioso che in breve tempo riuscì ad organizzare un referendum per il passaggio dalla monarchia alla repubblica islamica, che venne stravinto con il 98% dei voti. Alla trasformazione dell’Iran in un Paese guidato dai dettami dell’Islam si accompagnò l’epurazione dei nemici interni, marchiando con l’epiteto di "infedele" chiunque si opponesse al regime o tradisse, seconda la visione dei mullah e ulema, gli ideali della rivoluzione. Cancellati i sindacati, i comunisti e buona parte dell’esercito e ridotto al silenzio il mondo intellettuale, il consiglio supremo della rivoluzione, maggior organo costituzionale guidato da Khomeini fino alla sua morte, rimase il padre-padrone dell’Iran.

Credendo che le divisioni interne avessero indebolito l’esercito e il dinamismo politico dell’antico nemico confinate, il raìs iracheno Saddam Hussein attaccò l’Iran il 22 settembre 1980, con la benedizione dell’amministrazione statunitense di Ronald Reagan. I successivi otto anni di guerra fra i due confinanti non produssero un chiaro vincitore, ma ebbero come sole conseguenze un milione di iraniani morti e circa 700 miliardi di dollari di costi. Sul piano politico il patriottismo diffuso a profusione dal regime consolidò la rivoluzione khomeinista e mise a tacere ogni speranza di cambiamento, gettando gli iraniani da un regime all’altro. (Fine della prima puntata, continua…)