La rottura dell’Udeur non può che portare alla crisi di Governo

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La rottura dell’Udeur non può che portare alla crisi di Governo

24 Gennaio 2008

Qualcuno si chiede, non a torto, che fine abbia
fatto il premio di maggioranza. Il ragionamento è più o meno il seguente:
riferendosi per semplicità alla Camera dei deputati (ove il premio è
distribuito su base nazionale), poiché l’Udeur vale circa cinquecentomila voti,
la sua uscita dalla maggioranza comporta che il premio in seggi attribuito
all’Unione (che ha prevalso per ventimila voti) virtualmente non avrebbe più
ragione d’essere. Ma allora, se ne deduce, l’Unione perderebbe (sempre
virtualmente) la maggioranza. Come ulteriore conseguenza, si dovrebbe arrivare
immediatamente – anzi: automaticamente – allo scioglimento anticipato.

Il ragionamento non è
politicamente infondato. Si tratta di un elemento in più che il Capo dello
Stato dovrà valutare nello scegliere la strada per risolvere la crisi, se Prodi
non dovesse farcela al Senato. Ma giuridicamente le cose stanno in modo
diverso. La nostra Costituzione non prevede scioglimenti “automatici”: in caso
di crisi, essa riserva il potere di decisione al Capo dello Stato, all’esito di
valutazioni nelle quali vi è sempre un margine, più o meno ampio, di
discrezionalità.

Non troviamo nella Costituzione clausole
antiribaltone, automatismi del tipo “simul stabunt, simul cadent” (che portino allo
scioglimento automatico in caso di sfiducia parlamentare al Governo), limiti
alla discrezionalità valutativa presidenziale in caso di crisi: proprio questi
erano semmai i contenuti della riforma costituzionale che il centro-destra
voleva introdurre nella scorsa legislatura, ma che è stata bocciata al
referendum del giugno 2006.

Sicché, oggi, ci teniamo regole e
principi della democrazia parlamentare voluta dai costituenti del 1948.

In più, la garanzia
costituzionale del libero mandato parlamentare impedisce di irrigidire la
valutazione delle dinamiche parlamentari. Anche qui, il cambio di atteggiamento
politico di un gruppo (o di qualche singolo parlamentare), o addirittura il
cambio di coalizione, non comportano conseguenze automatiche. Si può ben
biasimare, sul piano politico, la frode agli elettori. Ma tutto dipende
dall’esito delle votazioni in Parlamento sulla fiducia e poi dalle scelte del
Capo dello Stato.

Si dirà: queste sono valutazioni
formali, la politica non può essere così bizantina da impedire che, di fronte
allo sfaldarsi di una maggioranza, il corpo elettorale torni ad essere
consultato. Soprattutto, la logica stessa del premio di maggioranza dovrebbe
impedire che i deputati ottenuti in più dall’Unione – presentatasi con quella
specifica coalizione –  possano essere utilizzati
per sostenere una maggioranza diversa.

Anche qui, politicamente, non si
può che essere d’accordo.

Ma in termini costituzionali le
cose non stanno esattamente così. La Costituzione è quella che è, e in più non si sono
affatto formate (purtroppo!), nella nostra prassi istituzionale, salde convenzioni
o consuetudini di stampo maggioritario e bipolare, che facciano considerare i
ribaltoni parlamentari come premesse di uno scioglimento anticipato pressoché
certo.

Certo, la speranza è che la
gestione della crisi da parte del Presidente Napolitano aiuti il formarsi di
consuetudini di questo tipo. Però, è bene non contarci troppo, perché in molti
dicono di non volere le elezioni (tanto più con questa legge). E poi, altri spiegano
che un governo istituzionale o tecnico, che faccia decantare la situazione e
riesca a fare qualche riforma, è richiesto dalla gravità della situazione. Qui
si vede come la forma di governo attualmente vigente consenta margini di
elasticità notevoli, e conseguenti spazi di manovra sia alle forze politiche
che al Presidente della Repubblica.

Questo è quanto ci suggerisce la Costituzione,
applicata nel nostro Paese, per i casi di crisi come quello in cui siamo.

In definitiva, da come sarà
gestita e finirà questa crisi, impareremo molto sulla probabile evoluzione
della nostra forma di governo: capiremo se possiamo sperare di evolvere verso
una matura democrazia dell’alternanza, o se saremo costretti a ritornare agli
stanchi riti della prima Repubblica.