La Ru486 ottiene il via libera. L’aborto a domicilio no
20 Ottobre 2009
Abortire è un dramma. È stato un dramma anche per quella donna americana, che ha recentemente raccontato in un libro di averlo fatto per 15 volte. E’ un dramma soprattutto perché è la conseguenza di un atto volontario, talvolta obbligato ma consapevole, di donne sprovvedute o disperate, che in ogni caso non ce la fanno a portare avanti la loro gravidanza per i motivi più diversi. Per abortire bisogna prendere un appuntamento in un centro per le interruzioni volontarie. Sottoporsi ad una serie di analisi ed ecografie di rito. Il tutto nel tempo giusto e nel modo giusto. Che sono quelli previsti dalla legge ma anche dalla medicina. Poi, deve passare almeno una settimana. Sette giorni per consentire alla donna che ha deciso di interrompere di tornare sui propri passi. Per decidere che quel dramma può essere di gran lunga peggiore di una gravidanza non desiderata. O per decidere di andare fino in fondo, farsi “pulire” l’utero, risucchiando tutto quello che c’è dentro, perché un figlio è un peso insostenibile e non c’è dramma interiore che pesi tanto quanto la responsabilità di una vita per tutta una vita.
E nell’ottica di una donna che si è convinta di abortire, c’è poco da rimuginare sulla vita negata. O da pensare alle conseguenze che quell’atto disperato continuerà a produrre nel suo corpo e nella sua mente (e questo è il punto fondamentale: se non ci pensano le donne, chi pensa davvero alla loro salute?). Quello che conta nell’istante in cui si decide è il tanto prima tanto meglio. L’idea è fissa: che tutto finisca il prima possibile.
Con la commercializzazione libera e senza limiti della Ru486 tutto sarebbe cambiato. Finiti i tempi tecnici, e anche di ripensamento, sarebbe bastato ingerire un paio di pillole per farla finita. Del resto, se è vero quanto ha sostenuto fino a ieri l’Aifa – l’Agenzia del farmaco che ha dato l’ultimo via libera alla commercializzazione in Italia della pillola abortiva ma con dei limiti applicativi ben precisi rappresentati dalla legge 194 – che “la pillola abortiva non presenta rischi dal punto di vista farmacologico e scientifico” e che “le cosiddette morti sospette sono decessi avvenuti solo perché il farmaco è stato usato in modo distorto oppure perché c’erano in atto delle patologie molto gravi”, il problema delle donne decise ad abortire si sarebbe almeno dimezzato. Si sarebbe risparmiato loro (sempre probabilmente), il drammatico tempo dell’attesa. Poiché entro la settima settimana tutto può finire. Ma in tutta questa storia c’è un ma ed è rappresentato non dai motivi etici che sottendono ad un giudizio negativo sull’aborto, in qualunque modo esso venga praticato, ma dai dati scientifici che dimostrano la dannosità del mifepristone – il componente abortivo della Ru – per la salute della donna che interrompe la gravidanza, quando non l’incapacità del farmaco di “finire il lavoro” senza conseguenze. Che, detto in altre parole, significa ricorrere comunque alla tecnica chirurgica.
Oggi chi ha richiesto per mesi un’attenzione assoluta al modo in cui la pillola abortiva sarebbe stata commercializzata in Italia ha salutato come un successo la decisione presa dall’Agenzia del farmaco di non consentire in nessun modo un uso improprio della Ru486; di non somministrarla se non in strutture ospedaliere, così come prevede la legge 194 sull’interruzione di gravidanza, e di prevedere il ricovero in ospedale fino a quando l’aborto non sia stato completato. Oggi per loro la decisione dell’Agenzia significa aprire un qualche spiraglio di sicurezza per le donne che decidono di abortire con la pillola e anche marcare in misura inequivocabile la presenza di maggiori rischi del metodo farmacologico rispetto a quelli tradizionali. E significa anche ribadire che se per la Ru486 servono particolari cautele di utilizzo, almeno a parole non è possibile prevedere protocolli che la somministrino in day hospital, introducendo di fatto in Italia l’aborto a domicilio. Oggi, come ha detto il ministro Sacconi, “si garantisce alla donna la non solitudine e la salvaguardia della consapevolezza della sua scelta”.
Una vittoria per tutti, insomma, anche per la sinistra, che dovrebbe avere a cuore più della vita abortita la vita che resta. A meno che, negando se stessa e il suo passato, quella stessa parte politica che per anni si è battuta per il diritto delle donna a decidere del proprio corpo, non avesse in mente di introdurre in Italia l’aborto a domicilio. Non sarebbe la prima volta che la sinistra italiana si ritrova a chiamare la libertà di morire, libertà di scelta.