La Russia del 1991 come il Nord Africa di oggi: la dignità prima di tutto
20 Giugno 2011
di Leon Aron
Ogni rivoluzione è una sorpresa. E tra le sorprese più grandi c’è, ancora oggi, l’ultima Rivoluzione Russa, che ha portato al crollo dell’Unione Sovietica. Praticamente nessun esperto, studioso, funzionario o politico occidentale era riuscito a prevedere che l’Urss si sarebbe sgretolata. Quando, nel marzo del 1985, Gorbaciov divenne segretario generale del Partito Comunista, nessuno dei contemporanei anticipava una crisi rivoluzionaria.
La credibilità dell’ideologia ufficiale, che, nelle parole di Yakovlev, teneva insieme l’intero sistema economico-politico sovietico come un “cerchio d’acciaio”, si stava rapidamente indebolendo. Nuove percezioni contribuirono a un cambiamento nell’atteggiamento nei confronti del regime e un “mutamento nei valori”. Gradualmente, la legittimità del sistema politico ha iniziato a essere messa in discussione. Come recita l’immortale “Teorema di Thomas” di Robert K. Merton – “Se gli uomini considerano reali talune situazioni, queste saranno reali nelle loro conseguenze”– il reale deterioramento dell’economia sovietica giunse di conseguenza al fondamentale cambiamento nella percezione e nella valutazione delle performance del regime.
In una lettera pubblicata su una rivista sovietica nel 1987, un lettore russo definì ciò che vedeva attorno a sé come una “rottura radicale nelle coscienze”. Noi sappiamo che aveva ragione, poiché quella russa fu la prima grande rivoluzione il cui corso era stato indicato nei sondaggi sull’opinione pubblica fin quasi dall’inizio. Già alla fine del 1989, la prima indagine nazionale sull’opinione pubblica registrò un sostegno travolgente verso elezioni competitive e verso la legalizzazione di partiti diversi dal Partito comunista sovietico, dopo quattro generazioni trascorse sotto la dittatura del partito unico e con i partiti indipendenti ancora fuori legge. Verso la metà degli anni ’90, più della metà delle persone intervistate in una regione russa era d’accordo sul fatto che “un’economia in salute” sarebbe stata più probabile se il governo avesse permesso “agli individui di fare quello vogliono”. Sei mesi più tardi, un sondaggio esteso a tutta la Russia rilevò che il 56% della popolazione sosteneva una transizione, rapida o graduale, verso un’economia di mercato. Dopo un anno, quel dato era salito al 64%.
Coloro che instillarono una tale “rottura nelle coscienze” non erano diversi da quelli che avevano contribuito a scatenare le altre rivoluzioni storiche dell’era moderna: scrittori, giornalisti, artisti. Come osservava Alexis de Tocqueville, uomini e donne di questo tipo “aiutano a creare quel generale senso d’insoddisfazione che solidifica l’opinione pubblica e che… crea la domanda effettiva di un cambiamento rivoluzionario”. Improvvisamente, “l’educazione politica dell’intera nazione” diventava il “lavoro dei suoi letterati”.
Lo stesso è avvenuto in Unione Sovietica. La fila alle edicole – a volte vere e proprie folle che si assiepavano alle sei del mattino, con in due ore mandavano esaurite le varie uscite quotidiane – e gli abbonamenti alle stelle ai principali giornali e periodici liberali testimoniamo il potere devastante degli opinionisti più celebri della glasnost o, come li chiamava Samuel Johnson, i “maestri di verità”: l’economista Nikolai Shmelyov; i filosofi politici Igor Klyamkin e Alexander Tsypko; brillanti saggisti come Vasily Selyunin, Yuri Chernichenko, Igor Vinogradov e Ales Adamovich; giornalisti come Yegor Yakovlev, Len Karpinsky, Fedor Burlatsky e un’altra ventina almeno. Per loro, una resurrezione morale era essenziale. Ciò non significava solo una revisione del sistema economico-politico sovietico o un ribaltamento delle norme sociali, ma una rivoluzione sul piano individuale: un cambiamento nel carattere dell’individuo russo. Come dichiarò Mikhail Antonov in un influente saggio del 1987, “Cosa ci sta succedendo?” nella rivista Oktyabr, le persone dovevano essere “salvate” non da pericoli esterni, bensì in larga parte “da se stesse, dalle conseguenze di quei processi demoralizzatori che uccidono le più nobili qualità umane”. Salvate in che modo? Rendendo irreversibile la nascente liberalizzazione, non come il “disgelo” di breve durata di Krusciov, ma mediante un “cambiamento climatico”. Cosa avrebbe garantito questa irreversibilità? Prima di ogni cosa, la comparsa di un uomo libero che sarebbe stato “immune al riproporsi della schiavitù spirituale”. Il settimanale Ogoniok, un periodico chiave per la glasnost, scrisse che solo “un uomo incapace di essere un informatore della polizia, di tradire e di raccontare falsità, non importa nel nome di chi o di che cosa, è in grado di salvarci dal riemergere dello stato totalitario”.
La natura di questo tortuoso ragionamento – per salvare le persone va salvaguardata la perestrojka, ma la perestrojka può essere salvata solo se è capace di cambiare l’uomo “all’interno” – non sembrava turbare nessuno. Chi ragionava ad alta voce su questi argomenti sembrava dare per scontato che il salvataggio del Paese attraverso la perestrojka, da una parte, e la liberazione del suo popolo dal pantano spirituale, dall’altra, fossero strettamente – e forse inestricabilmente – intrecciate, senza poi andare oltre. Ciò che contava era liberare le persone dalla “servitù” e dalla “schiavitù” e farle diventare cittadini. “Basta!” esclamò Boris Vasiliev, l’autore di un romanzo popolare sulla Seconda Guerra Mondiale, trasposto poi in un film di altrettanto successo. “Basta bugie, basta servilismo, basta codardia. Ricordiamoci finalmente che siamo tutti cittadiniRicordiamoci finalmente che siamo tutti cittadini. Cittadini orgogliosi di una nazione orgogliosa!”
Tocqueville, approfondendo le cause della Rivoluzione Francese, notò che i regimi rovesciati nelle rivoluzioni tendono a essere meno repressivi di quelli che li precedono. Per quale motivo? Perché, ipotizzò Tocqueville, nonostante le persone “possano soffrire di meno”, la loro “sensibilità si inasprisce”. Come al solito, Tocqueville aveva compreso qualcosa di enorme importanza. Dai Padri Fondatori ai giacobini e ai bolscevichi, i rivoluzionari hanno combattuto essenzialmente sotto la stessa bandiera: l’avanzamento della dignità umana. È nella ricerca della dignità attraverso la libertà e la cittadinanza che vive – e continuerà a vivere − la sensibilità sovversiva della glasnost. Proprio come le pagine di Ogoniok e Moskovskie Novosti dovrebbero aver un posto d’onore accanto a Boris Yeltsin tra i simboli dell’ultima rivoluzione russa, così le pagine Internet in lingua araba dovrebbero comparire come emblemi dell’attuale rivoluzione, accanto alle immagini delle folle ribelli in Piazza Tahrir al Cairo, nella piazza della Casbah a Tunisi, nelle strade di Bengasi e nelle esplosive città della Siria. Lingue e culture politiche a parte, i messaggi e le sensazioni ispiratrici sono stati notevolmente simili.
Il fruttivendolo Mohammed Bouazizi, la cui volontaria immolazione fece partire la rivolta tunisina che diede inizio alla Primavera araba del 2011, compì questo gesto “non perché fosse disoccupato” – come spiegato da un dimostrante di Tunisi a un giornalista americano – ma “perché si era recato dalle autorità locali per esporgli i suoi problemi, riguardo al governo, ed era stato picchiato”. A Bengasi, la rivolta libica è iniziata con la folla che cantava “La gente vuole la fine della corruzione!”. In Egitto, il popolo si è radunato “per l’auto-responsabilizzazione di un popolo a lungo represso e non più disposto ad avere paura, a essere privato della libertà e a essere umiliato dai propri leader”, scrisse l’editorialista del New York Times, Thomas Friedman, in un reportage dal Cairo del febbraio scorso. Le stesse cose le avrebbe potute scrivere da Mosca, nel 1991.
“Dignità prima del pane!” è stato lo slogan della rivoluzione tunisina. L’economia della Tunisia era cresciuta tra il 2% e l’8% annui nei due decenni precedenti la rivolta. Grazie all’elevato prezzo del petrolio, anche la Libia sull’orlo della rivolta godeva di un boom economico. Entrambe ci ricordano che nel mondo moderno, il progresso economico non sostituisce l’orgoglio e il rispetto di sé, che sono propri del senso di cittadinanza. Se non teniamo questo a mente, continueremo a sorprenderci per le “rivoluzioni colorate” nel mondo post-sovietico, per la Primavera araba e, prima o poi, per un inevitabile sconvolgimento democratico in Cina, così come ci siamo sorpresi per la Russia sovietica. “L’Onnipotente ci ha donato un senso di dignità così forte che non possiamo tollerare la negazione dei nostri diritti inalienabili e delle nostre libertà, e non ci importa quali vantaggi reali o presunti provengano da regimi autoritari stabili”, ha scritto nel marzo scorso il presidente del Kirghizistan, Roza Otunbayeva. “È la magia delle persone, giovani e anziani, uomini e donne di diverso credo religioso e politico, che si riuniscono nelle piazze delle città per annunciare che quando è troppo è troppo”.
Naturalmente, il magnifico impulso morale, la ricerca della verità e del bene, è una condizione necessaria ma non sufficiente per il successo della ricostruzione di un Paese. Può bastare per buttare giù l’ancien regime, ma non per superare, in un colpo solo, una cultura politica nazionale profondamente autoritaria. Le radici delle istituzioni democratiche scaturite da rivoluzioni cariche di contenuti morali possono risultare troppo superficiali per sostenere una democrazia funzionante, in una società caratterizzata dalla piccola e preziosa tradizione dell’auto-organizzazione e dell’autogoverno popolare. Ciò potrebbe rivelarsi un ostacolo enorme alla realizzazione della promessa della Primavera araba, così come è avvenuto in Russia. La rinascita morale russa fu contrastata dall’atomizzazione e dalla diffidenza prodotta da 70 anni di totalitarismo. E anche se Gorbaciov e Yeltsin hanno smantellato un impero, l’eredità del pensiero imperiale ha da allora reso milioni di russi favorevoli al neo-autoritario putinismo, con il suo leitmotiv propagandistico dell’ “accerchiamento ostile” e della “Russia che si rialza in piedi”. Inoltre, l’enorme tragedia nazionale (e le colpe) dello stalinismo non sono mai state completamente esaminate ed espiate, e hanno così corrotto l’intera impresa morale, così come i “cantori” della glasnost avevano vibratamente avvertito.
Questo è il motivo per cui oggi la Russia sembra essere ancora una volta sulla strada verso un’altra fase di perestrojka. Anche se le riforme del mercato degli anni ’90 e l’attuale prezzo del petrolio hanno contribuito a produrre un prosperità senza precedenti per milioni di persone, la corruzione sfacciata della classe dirigente, il nuovo stile della censura e il disprezzo aperto per l’opinione pubblica hanno generato sentimenti di alienazione e di cinismo, che stanno cominciando a raggiungere (se non addirittura superare) il livello dei primi anni ’80.
Basta trascorrere qualche giorno a Mosca per parlare con l’intellighenzia o, meglio ancora, dare un’occhiata veloce ai blog di LiveJournal (Zhivoy Zhurnal), la piattaforma internet più famosa in Russia, o ai siti dei principali gruppi d’indipendenza e di opposizione per vedere che il motto degli anni ’80, “Non si può più andare avanti così!”, sta diventando di nuovo un articolo di fede. L’imperativo morale della libertà è riaffermare se stessa, e non solo tra i ristretti circoli di attivisti e intellettuali a favore della democrazia. Questo febbraio, l’Istituto per lo Sviluppo Contemporaneo, un think tank liberale presieduto dal presidente Dmitri Medvedev, ha pubblicato quella che sembra essere una piattaforma programmatica per le elezioni presidenziali russe del 2012: “In passato la Russia ha avuto bisogno della libertà per vivere (meglio); ora deve averla al fine di sopravvivere… La sfida dei nostri tempi è la revisione del sistema dei valori, la creazione di una nuova coscienza. Non possiamo costruire un Paese nuovo con un modo di pensare antico… Il miglior investimento (che lo Stato può realizzare sull’uomo) consiste nella Libertà e nello Stato di diritto. E nel rispetto per la Dignità dell’uomo. È stata la ricerca intellettuale e morale per il rispetto e l’orgoglio di sé, che, partendo da uno spietato esame morale del passato e del presente del Paese, in pochi anni ha eroso il potente stato sovietico, ad averlo privato di legittimità e ad averlo trasformato in un guscio bruciato che si è sbriciolato nell’agosto del 1991. Il racconto di questo viaggio intellettuale e morale è una storia assolutamente centrale nell’ultima grande rivoluzione del 20° secolo.
Tratto da Foreign Policy
Traduzione di Stefano Fiori