La “salita in politica” di Monti e la forza della partitocrazia

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La “salita in politica” di Monti e la forza della partitocrazia

05 Gennaio 2013

Ho letto con interesse le dichiarazioni del senatore Monti in cui si criticano le scelte politiche del PdL e del Pd nell’ultimo scorcio di legislatura. Cosa ha detto in sostanza il presidente del consiglio? Al Pd ha rimproverato di essere tenuto in scacco dalla sua ala più estrema (il massimalismo di Stefano Fassina, responsabile Economia del Partito), dal Sel di Vendola e dalla Cgil, ricordano come un simile condizionamento abbia ostacolato pesantemente l’azione del governo nella riforma del mercato del lavoro. Al PdL ha rimproverato le eccessive remore quando si è trattato di modificare o abolire gli ordini professionali, creando condizioni migliori per la concorrenza e per i consumatori.

Si tratta di critiche giuste e sensate. L’azione riformatrice del governo presieduto dal professore bocconiano è stata indubbiamente frenata dalle resistenze conservatrici presenti su entrambi i lati dello schieramento politico. Anche la riforma più incisiva, quella delle pensioni (l’unica riforma strutturale che si è riusciti a far passare), è stata, nei mesi seguenti alla sua approvazione, insidiata da manovre di svuotamento. Basti pensare al ricorrente tentativo di estendere in maniera esponenziale l’area degli esodati, nonché alle difficoltà incontrate dall’agganciamento automatico dell’età pensionabile alle aspettative di vita.

Tuttavia la giustezza dei rilievi formulati da Monti non esime da alcune considerazioni aggiuntive. Anzitutto, occorre rilevare che le sue critiche giungono un po’ in ritardo. Nel momento in cui si sono manifestate queste e altre resistenze, il governo avrebbe potuto mostrarsi più deciso. Infatti, se è vero che l’esecutivo dipendeva da una maggioranza eterogenea, esso era frutto di circostanze eccezionali e, soprattutto, non aveva alternative, per cui una condotta più ferma avrebbe consentito di ottenere risultati migliori su diversi fronti.

Va inoltre considerato (ed è questo forse l’aspetto più importante) il contesto in cui cui Monti ha svolto le sue osservazioni: quello di una campagna elettorale. Un contesto sicuramente anomalo se poniamo mente alla situazione in cui quell’esecutivo è nato.

Il governo tecnico sorge, nel novembre 2011, per risolvere un’impasse. Il precedente governo (legittimato dal voto popolare) era da mesi paralizzato da conflitti interni che lo rendevano incapace di assumere misure atte a fronteggiare la crisi. L’opposizione, che era assai avanti nei sondaggi, non ha voluto le elezioni anticipate perché timorosa di dover assumere provvedimenti impopolari dopo il voto. A questo punto, per iniziativa del presidente della repubblica e col consenso delle maggiori forze politiche, è stato nominato un esecutivo composto di professori. A rimarcare il carattere eccezionale e bipartisan dell’operazione, Napolitano, prima di dare l’incarico a Monti, lo nominava senatore a vita, per sottrarlo alla contesa politica corrente.

Nel corso di oltre un anno Monti è stato variamente corteggiato dalla politica e sul suo conto si sono formulate le più diverse supposizioni. Adesso che la legislatura è giunta alla sua scadenza naturale, Monti aveva davanti a sé diverse strade. Quella più logica sarebbe stata di rientrare nei ranghi, tenendo fede al suo ruolo di "dittatore romano". Una scelta che sarebbe stata consonante anche con il laticlavio vitalizio che gli è stato conferito preventivamente. Al contrario, il professore ha scelto d’impegnarsi in politica. Ma soprattutto lo ha fatto scegliendo il centro. Una decisione che comporta implicitamente un giudizio negativo sugli assetti politici che negli ultimi diciannove anni sono stati faticosamente (e imperfettamente) conquistati. La disarticolazione di questi equilibri, infatti, è stata sempre la maggiore preoccupazione delle forze che si definiscono centriste, avversarie giurate della democrazia dell’alternanza. Anche l’impasse in cui si è trovato il governo Berlusconi ha la sua origine lontana nella defezione di forze centriste che hanno sempre remato contro alla stabilizzazione (formale o anche solo consuetudinaria) della democrazia competitiva e governante.

Senza nessuna intenzione polemica, e senza voler esprimere un giudizio di valore ma solo un modesto giudizio di fatto, la "salita in politica" di Monti mostra quanto nel nostro paese sia forte la partitocrazia. Un concezione politica, cioè, che rifugge da governi legittimati dal voto popolare e preferisce esecutivi instabili, frutto di mutevoli combinazioni politiche. Speriamo di non dover salutare il risultato delle prossime elezioni con uno slogan poco confortante (e che abbiamo già sentito variamente evocare in diversi commenti politici): bentornati nella Prima Repubblica.