La sconfitta di McCain e il futuro del movimento conservatore

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La sconfitta di McCain e il futuro del movimento conservatore

05 Novembre 2008

La sconfitta di John McCain e del partito repubblicano alle elezioni presidenziali suscita diversi interrogativi sulle ragioni della disfatta e soprattutto sul futuro politico del movimento conservatore. Obama ha stravinto, i democratici sono tornati al potere in grande stile e l’America ha fatto uno straordinario passo avanti sulla strada della pacificazione razziale. Ai repubblicani non resta che raccogliere i cocci e sperare di rimettere insieme una coalizione vincente in tempo per le elezioni di medio termine del 2010.

I risultati elettorali rispecchiano in larga misura i sondaggi che circolavano nelle ultime due settimane. Gli elettori sono andati a votare con la mente rivolta alla crisi economica e convinti – in maggioranza – che il Paese non fosse più guidato da mani capaci. Nonostante le speranze dei repubblicani (e le paure dei democratici) le elezioni si sono concluse senza grosse sorprese, per lo meno rispetto alle previsioni. Obama ha conquistato il 52 per cento dei consensi contro il 47 per cento di McCain. I repubblicani hanno perso cinque seggi cruciali al Senato: passano ai democratici il Colorado, il Nuovo Messico, la Carolina del Nord, la Virginia e il New Hampshire.

I democratici hanno conquistato larghe maggioranze alla Camera e al Senato, ma non sono riusciti a raggiungere la super maggioranza che avrebbe garantito ad Obama un Congresso in linea con la Casa Bianca. L’affluenza alle urne è stata eccezionale e, benché i dati non siano ancora definitivi, sembra indirizzata a raggiungere il 64 per cento registrato nel 1960 quando Kennedy vinse contro Nixon. Allora come oggi fu un’elezione storica: Kennedy era il primo cattolico a diventare presidente degli Stati Uniti, Obama è il primo afro-americano.

La dilagante vittoria di Obama mette a tacere le speculazioni sull’“effetto Bradley”. Nel 1982 Tom Bradley, ex sindaco democratico nero di Los Angeles, fu clamorosamente sconfitto alle elezioni per la carica di governatore della California nonostante i sondaggi lo indicassero come vincitore con un ampio margine. A posteriori si comprese che molti degli elettori bianchi intervistati alla vigilia delle elezioni avevano mentito sulla propria disponibilità a votare per un nero. Obama, dunque, diventa presidente grazie soprattutto al voto della classe media bianca che lo ha preferito a McCain, ridimensionando la favola dell’America razzista.

McCain ha pagato con la sconfitta il peso dell’eredità di Bush ma anche gli errori commessi in una campagna elettorale disorganizzata ed erratica. Nell’estate del 2007 era miracolosamente riuscito ad evitare la bancarotta e ad emergere come l’uomo di punta del partito repubblicano. Proiettato da candidato nell’elezione presidenziale si è progressivamente allontanato dalla sua immagine di politico indipendente per assecondare la base più conservatrice del partito.

Ha preso le distanze da iniziative legislative che l’avevano reso popolare tra gli elettori indipendenti, come il tentativo di regolamentare l’immigrazione, e dalle posizioni coraggiose sulla tortura che l’avevano contraddistinto all’interno del suo partito. L’errore più grande è stata la scelta di Sarah Palin come candidato alla vice presidenza. Alla vigilia del voto, sei americani su dieci consideravano il governatore dell’Alaska inadatta a rivestire la carica, mentre un terzo degli elettori dichiarava che a causa sua probabilmente non avrebbe votato per McCain.

Pur da perdente McCain è riuscito a conquistare il 47 per cento del voto popolare, una percentuale quasi doppia rispetto agli indici di gradimento correnti del Presidente Bush. Il risultato gli rende onore ed è indice del credito straordinario di cui il senatore dell’Arizona gode presso l’elettorato americano. Le stesse considerazioni non valgono per il suo partito, che è stato severamente punito dalla dilagante vittoria democratica alla Camera e al Senato.

Il Grand Old Party sarà costretto a una ristrutturazione intestina che coinvolgerà sia la leadership che l’agenda del partito. Le prime avvisaglie si sono già viste durante la campagna elettorale con la presa di distanza dal ticket presidenziale di repubblicani di spicco come Peggy Noonan, Colin Powell e Ken Duberstein. Per tornare ad essere competitivi i repubblicani dovranno marcare stretto l’amministrazione Obama, sperare in qualche errore del giovane presidente e allo stesso tempo rinnovarsi per diventare un partito meno incline ad assecondare i propri estremi.

Il partito democratico ha costruito la propria vittoria non solo in antitesi all’amministrazione Bush e al partito di governo, ma anche e soprattutto basandosi sulla straordinarie capacità di mobilitazione dimostrate da Obama durante tutto il corso della campagna elettorale. Il giovane democratico ha battuto tutti i record nella raccolta di fondi:  più di 620 milioni di dollari contro i 237 milioni di dollari raccolti da McCain. La sua macchina elettorale si è mossa in modo capillare e metodico sin dai tempi delle primarie democratiche. E’ riuscita a sconfiggere il formidabile clan politico dei Clinton e a guadagnarsi la Casa Bianca.

Di fronte a questi risultati al GOP non resta che sedersi in panchina e riflettere sul da farsi. C’è che dice che il partito dovrebbe ritornare alle proprie radici, soprattutto in materia di conservatorismo fiscale; c’è chi incolpa il conservatorismo sociale e religioso e chi ritiene che McCain non l’abbia tenuto in sufficiente considerazione. Quel che è certo è che i repubblicani hanno perso il polso del proprio elettorato e, a meno che non riescano a ritrovare l’ispirazione e la determinazione degli anni di Gingrich e del “Contratto con l’America”, saranno spinti ai margini della vita politica americana per diversi anni a venire.