La scuola dell’odio: piccoli martiri crescono all’ombra delle Madrasse

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La scuola dell’odio: piccoli martiri crescono all’ombra delle Madrasse

30 Agosto 2011

La prima madrassa fu fondata a Bagdad nell’VIII secolo, quando in Europa quasi nessuno sapeva più leggere e scrivere, era una scuola di insegnamento superiore in cui si parlava di matematica, filosofia e medicina e che dava anche vitto e alloggio agli studenti. Per le famiglie povere delle campagne le «madrasse» oggi rappresentano pasti sicuri per i figli e l’unica possibilità di educazione. Per i mullah esse sono la base del loro potere e i centri di reclutamento della jihad; spesso e volentieri vi si insegna il fanatismo e l’odio per i paesi musulmani non integralisti e per l’Occidente.

In queste scuole crescono quei bambini e quei giovani ripresi piú volte dai media mentre recitano insieme il Corano cantilenando e dondolandosi. Basta uno di loro, con una cintura imbottita di esplosivo, un’età da tempeste ormonali e una testa vuota, che chiunque può riempire, per credere all’incredibile, ma non tutti rispondono alle aspettative dei cattivi maestri, come nel caso di Giorgio Castriota Scanderbeg rapito e plagiato dagli ottomani nel quindicesimo secolo, che diventò il peggior nemico dei musulmani d’oriente o, per venire ad oggi, come nel caso di un adolescente afghano bloccato appena in tempo, prima di farsi esplodere e incarcerato a Khost in Afghanistan, dove passa le giornate osservandosi le mani.

Mani che Mohammed, 15 anni, bambino cresciuto in un corpo d’adulto, doveva utilizzare per farsi saltare a fianco del governatore di Khost. Detenuto nella prigione di Khost, Mohammed indossa una shalwar kameez, l’abito tradizionale pakistano. Il percorso che l’ha condotto in prigione è semplice e tremendo. Originario del Nord-Waziristan, Mohammed è cresciuto in una famiglia pashtun abbastanza agiata, con i suoi cinque fratelli e le sue due sorelle. Dapprima ha frequentato la scuola pubblica, come tutti i ragazzi del villaggio. Il padre insegna a Makin, capitale del Nord-Waziristan. L’idea di diventare un terrorista suicida non aveva mai sfiorato la sua mente, ma la visita nella sua scuola di un mullah venuto a cercare nuove reclute scatena in lui la voglia di conquistarsi il suo paradiso. Il mullah propone ai ragazzi di andare a studiare nella sua madrassa, la scuola coranica e gli dice che, per questo, Allah li amerà.

Rafiqullah è stato scelto insieme a due altri giovani da un certo Malati Amidullah. Dopo un passaggio rapido in questa scuola religiosa, Mohammed è inviato in un centro per la preparazione al suicidio. Per tre mesi gli insegnano a indossare un gilet esplosivo, a maneggiarlo, a stabilire il momento propizio per farsi saltare. L’uomo mostra loro dei film di propaganda e li incita a commettere attentati assicurando loro che gli afghani non sono buoni musulmani. I tre ragazzi hanno imparato a guidare moto e macchine, utilizzare armi e poi Rafiqullah è stato spedito in Afghanistan. Il mullah Hamidullah, gli assicura il paradiso e gli racconta della malvagità delle persone che avrebbero ucciso. Mohammed e i suoi compagni, si addormentavano pensando al paradiso. Dopo tre mesi il «ragazzo bomba» è pronto.

Mohammed traversa a piedi la frontiera afghanopakistana che le tribú pashtun, a cavallo dei due Paesi, non riconoscono. Cammina sette ore per andare, dal suo villaggio nel Waziristan, nel villaggio afghano di Khost. Quando Mohammed arriva a Khost, trova il suo «amico». Questo gli consegna una giacca bomba e quando Rafiqullah mostra di avere paura, gli punta l’arma contro minacciando di ucciderlo. All’indomani, dovrà assassinare il governatore di Khost. Riceverà una telefonata nel momento in cui questo uscirà dal suo ufficio. Dovrà farsi esplodere al suo fianco; gli avevano spiegato che era una persona malvagia, che non era un buon musulmano e che viveva come gli americani. Gli avevano detto di ucciderlo.

Il ragazzo, impaurito, si è consegnato alle forze dell’ordine e il presidente Garzai stesso ha ordinato di rilasciarlo, regalandogli anche 2.000 dollari. La polizia afghana irromperà nella casa dove alloggiano i giovani per arrestarli. Giovani senza paura perché non sapevano neanche a cosa somigliasse un’esplosione, non ne avevano mai viste. Ora Mohammed non vuole piú uccidere, vuole solo una vita normale. Molti bambini vengono inviati nelle madrasse perché non hanno i mezzi economici per andare a scuola. Queste, lontane dai villaggi, accolgono i bambini e lí inizia il lavaggio del cervello. Molti vengono separati dal gruppo; segue lo studio accanito del Corano, corredato da proiezioni di filmati fabbricati appositamente, che mostrano soldati americani che fanno i bisogni sul Corano e altri atti blasfemi di questo genere, filmati di violenze sulle donne musulmane fatte da finti occidentali e cosí via.

(Tratto da Antonio Evangelista, "Madrasse. Piccoli martiri crescono tra Balcani ed Europa", Editori Riuniti 2009)