La scuola è il primo test per gli immigrati che vivono in Spagna
25 Febbraio 2010
di Lisa Abend
In una mattina di gennaio a Cornellà, poco fuori Barcellona, otto bambini sono intenti a fare un dipinto del Pianeta Terra. La loro classe non ha niente di diverso da tante altre classi: i disegni degli alunni coprono pareti dai colori vivaci, dalle seggiole pendono zainetti ornati da gadget dei personaggi dei cartoons. Ma l’insegnante Sabina Estevez sta affrontando una sfida particolare: oltre a fare attenzione che i bambini dipingano entro le linee e cancellino eventuali sbavature, deve assicurarsi che intendano anche la più semplice delle istruzioni.
Dopo tutto, la maggior parte dei suoi alunni è in Spagna solo da qualche settimana. Cornellà è l’ultima città della Catalogna ad aprire uno "Spazio d’accoglienza educativo" (o EBE, Espai de benvinguda educativa; a livello ufficiale stanno tutti molto attenti a non chiamarlo “scuola”). Pensati per aiutare i bambini degli immigrati ad imparare i rudimenti dell’idioma catalano e ambientarli al nuovo contesto prima della loro entrata nella scuola vera e propria, questi centri rappresentano la migliore possibilità a disposizione della Catalogna – dove il 15 per cento della popolazione è di nascita o discendenza straniera – per integrare con successo i figli degli immigrati. “Abbiamo bisogno di creare un luogo di prima accoglienza, non solo per i bambini ma anche per le loro famiglie” spiega Ernest Maragall, consigliere per l’educazione dell’amministrazione catalana.
Prima della recessione, quel bisogno stava crescendo rapidamente. Nel 1997, il numero degli stranieri che vivevano in Spagna era di poco più di mezzo milione. Undici anni più tardi è arrivato a 5,3 milioni, su una popolazione di 46 milioni. Nel 2008, la Spagna ha registrato il più alto numero di arrivi di ogni stato dell’Unione europea, a eccezione dell’Italia. Sebbene sia sostanzialmente riuscita a evitare le esplosioni di xenofobia e di violenza registrate in altri paesi, la Spagna è ancora alle prese con lo sforzo di integrare la sua popolazione immigrata.
Si prenda l’istruzione. Il numero di scuole con una popolazione studentesca in cui l’incidenza straniera è del 30 per cento o superiore è cresciuto, e sebbene siano poche le ricerche su un tale fenomeno, un rapporto redatto dal think-tank madrileno Instituto Real Elcano ha trovato una chiara correlazione tra alta presenza di studenti di nascita straniera e mediocrità del livello cognitivo della scuola. Basandosi sui dati presentati da quello studio, il suo autore, Héctor Cebolla, afferma che “il divario (nei risultati) tra una scuola elementare senza stranieri rispetto a una dove tutti gli studenti nati al di fuori della Spagna, è del 25 per cento”. Le cose non cambiano con l’età: soltanto l’1,5 per cento sul totale degli studenti universitari dell’Unione europea è nato al di fuori del vecchio continente.
L’immigrazione ha cambiato ciò che avviene all’interno di una classe, sia per chi è nativo del posto che per chi è straniero. Dato che il criterio di inserimento scolastico dei figli di immigrati tiene conto soltanto della loro età anagrafica, trascurando di considerare da quanto tempo siano arrivati nel paese, i maestri si trovano nella necessità di dover bloccare l’avanzamento del programma per dar tempo ai nuovi alunni di recuperare. “E’ impossibile lavorare in questa maniera – ha raccontato a El Pais un professore di storia, che nel 2007 vide la propria classe iniziare l’anno con 17 studenti e finirlo con 28. – Avremmo dovuto arrivare a studiare gli anni ’90, ma non siamo andati oltre la Rivoluzione russa”.
I 21 studenti iscritti alla EBE di Cornellà provengono da nazioni assai diverse l’una dall’altra: Cina, Ecuador, India, Marocco… Nessuno di loro parla catalano, la lingua base, e qualcuno non è mai stato a scuola. “Qui possiamo dare lezioni individuali e insegnare la lingua con metodi attivi piuttosto che spiegarla parlando di soggetto, verbo e predicato” dice Dolores Pijuan, direttore della scuola. Inoltre l’EBE entra in contatto con i genitori degli alunni, offrendo loro una serie di aiuti che vanno dalla registrazione al sistema sanitario nazionale a una visita conoscitiva dei supermercati locali.
Alcuni sindacati, così come alcune associazioni per la difesa dei diritti umani, criticano gli spazi d’accoglienza come l’EBE. “(I centri) ghettizzano gli studenti e le loro famiglie” sostiene Begoña Sánchez, portavoce di SOS Racisme. “Tenere quei bambini separati dagli altri non è integrarli, ma segregarli”. Quando la città di Vic, vicino Barcellona, inaugurò il suo centro EBE, nel 2008, la comunità degli immigrati protestò vivacemente. Diciotto mesi più tardi, dice Ana Erra, funzionaria del comune, quella polemica si è sopita: “Nessuno è più contento dell’esistenza dell’EBE quanto coloro che ne usufruiscono. I genitori che hanno iscritto un bambino in quella struttura, invariabilmente tornano per iscrivere anche gli altri loro figli. Qualche volta cercano di convincerci a prenderci carico di bambini troppo piccoli”.
Al termine del loro ciclo di studi all’EBE, i bambini vengono distribuiti nelle scuole pubbliche di Vic, nelle quali il numero di studenti di provenienza straniera non può eccedere il 30 per cento. I genitori sono affiancati da “mentori” del posto, che li aiutano con consigli sulle piccole cose di ogni giorno come ad esempio ciò che è più opportuno portare quando a scuola c’è una festa. “Se, dopo dieci anni di questo lavoro, il 15 per cento dei nostri studenti universitari sono immigrati, allora sappiamo di essere nel giusto”, dice Maragall. Magari tutta la Spagna fosse d’accordo! Vestito con una tuta da ginnastica rossa, Hafid, un bambino di 8 anni al suo secondo giorno all’EBE di Cornellà, ha un attimo di smarrimento quando la sua maestra gli chiede di andare a prendere la tempera di colore nero. La maestra Estevez ripete lentamente la richiesta, e la faccia di Hafid s’illumina. “Negro” dice, sorridendo, mentre porta al suo compagno di classe il tubetto che gli serve.