La sentenza Mondadori è anormale perché siamo in Italia
10 Luglio 2011
di Ronin
Nei paesi normali di solito non si pretende che la giustizia mostri qualche forma di cautela o di reverenza verso i grandi attori del mondo imprenditoriale che hanno commesso un reato. Nel 2009 Microsoft ha pagato un multa di 388 milioni di dollari a Uniloc per aver violato un brevetto anti-pirateria registrato dall’azienda concorrente. Dopo sette anni di battaglie legali Mark Zuckerberg e i gemelli Winklevoss hanno raggiunto un accordo sulla paternità di Facebook che costringerà Zuckerberg a versare decine di milioni di dollari alla coppia di imprenditori-canottieri che rivendicano l’idea originale del social network.
Anche Mondadori, se vivessimo in un Paese normale, avrebbe dovuto fare buon viso a cattivo gioco e accettare la sentenza di secondo grado che sabato scorso ha condannato il gruppo controllato dalla famiglia Berlusconi a rifondere i concorrenti di CIR con 560 milioni di euro (il risarcimento vale il doppio del portafoglio che Fininvest ha nell’azienda), in attesa che si pronunci la Cassazione.
Secondo i giudici del tribunale civile di Milano, che hanno confermato l’impianto del processo che nel 2007 portò alla condanna di Cesare Previti, la CIR di De Benedetti subì uno svantaggio competitivo durante la cosiddetta Guerra di Segrate: un giudice corrotto della Corte di Appello di Roma avrebbe permesso al Cavaliere di riprendersi Mondadori dall’Ingegnere (eccezion fatta per Repubblica, l’Espresso e i quotidiani locali del gruppo). Da qui la condanna, pesante, anche se in misura ridotta rispetto al primo grado (190 mln di euro in meno).
Se fossimo in un Paese normale, il commento di Marina Berlusconi alla sentenza dei giudici di Milano ("un’aggressione contro mio padre") sarebbe stato eccessivo, pur comprendendo la rabbia di chi in quel progetto editoriale ha investito tanto, raccogliendo buoni successi. Ma non siamo in un Paese normale, siamo in Italia, e Marina Berlusconi non sta dando i numeri.
Il giorno stesso della sentenza, in un video diffuso sul sito di Repubblica, il vicedirettore del quotidiano Massimo Giannini ha commententato così la condanna: "sono gli ultimi atti di un governo moribondo, che si sta trasformando in un regime disperato", nella cornice di quella "stagione sciagurata" che ha portato ad uno "svilimento della qualità delle nostra democrazia".
Com’è consuetudine, dal piano giuridico si passa all’attacco ideologico. Aivoglia a dire che è stata "una sentenza estranea alla politica", come fa De Benedetti; secondo una delle sue penne più promettenti, Giannini, appunto, si tratta invece di "una condanna annunciata" (tanto annunciata che venerdì scorso il gruppo CIR ha avuto un risultato positivo in Borsa, durante una seduta di Piazza Affari dall’andamento particolarmente negativo).
Siamo il Paese in cui Repubblica orchestra un’ampia e violenta campagna moralizzatrice contro il governo a base di intercettazioni, interrogatori, atti processuali diffusi con sospetta tempestività dalla stampa, dando l’impressione che ci sia un coordinamento tra le redazioni dei giornali e le procure. L’obiettivo è lo stesso da anni, almeno dal momento della discesa in campo del Cav. e fa comodo non solo alla sinistra: abbattere il tiranno a colpi di processi e scandali giornalistici.
Ma quindi, se non siamo in un Paese normale, se dietro quella sentenza si nasconde una guerra tra gruppi di potere politico-culturale che si scontrano da decenni per il predominio nel mercato dell’informazione e dell’intrattenimento (dalla spartizione del ’91 De Benedetti ha preso il boccone più prelibato), la magistratura milanese avrebbe potuto usare un po’ più di prudenza e di cautela nella punizione da infliggere a Mondadori. In fondo non stiamo parlando del latte Parmalat o dei pomodori Cirio, prodotti degnissimi fino al crack, ma di un brand simbolico della cultura italiana.
Mondadori è uno dei pochi grandi player dell’editoria nazionale (ce ne sono tre o quattro) in grado di reggere la competizione su scala europea, in quel processo di acquisizioni e concentrazioni editoriali che caratterizza il mercato del libro contemporaneo. Negli ultimi anni è riuscita ad espandersi, soprattutto in Francia, affrontando il mercato senza rinunciare ad un catalogo diversificato che dimostra come l’azienda abbia saputo rilanciarsi creando ricchezza e occupazione.
E’ giusto innervosire azionisti, investitori, lavoratori, rischiando di buttare all’aria un pezzo pregiato del made in Italy, in nome di una guerriglia politico-economica che si trascina da anni con alterne vicende nelle aule di giustizia? Ci sono "gravi e fondati motivi" per sospendere la sentenza, com’è avvenuto fino adesso, per evitare a Mondadori un "danno grave e irreparabile"? Ma a queste domande si sa come risponderebbe Giannini: sono sporche leggine ad personam. In fondo a lui che gliene frega dell’eredità di Arnoldo Mondadori.