La sfera pubblica tra regole e comandamenti
28 Ottobre 2007
Il binomio religione-politica è sempre più al centro della
riflessione culturale europea, come dimostrano gli editoriali dei quotidiani e
l’incontrastato successo di volumi sul tema nell’ultima Fiera del libro di
Francoforte.
Proprio il mondo germanico, con il giurista Ernst W.
Böckenförde, è latore della tesi oggi maggiormente dibattuta, quella di uno
stato liberale e secolarizzato che “vive di presupposti che esso stesso non può
garantire”. La questione dei fondamenti
pre-politici delle democrazie occidentali ritorna dunque alla ribalta dopo
essere stata già affrontata nel gennaio 2004 nel pubblico confronto fra Jurgen
Habermas e l’allora cardinale Ratzinger.
A suo tempo, nel celebre saggio Fatti e norme (1992),
Habermas aveva indagato il rapporto tra società civile e formazione della
sfera pubblica. Quest’ultima, regno di quella prassi comunicativa che egli
considera all’origine del funzionamento corretto di una democrazia, sarebbe
principalmente interessata agli argomenti che il discorso religioso sviluppa
nel tentativo di dare un volto più umano e solidaristico ai processi politici.
Come si giunge a questa rilevanza pubblica dell’elemento
religioso? Secondo il filosofo tedesco, i diversi attori della società civile
esprimono, ciascuno dalla sua nicchia e con codici culturali propri, degli interessi
e delle preferenze. Queste entrano a far parte della sfera
pubblica, ove si confrontano e se ne stemperano gli eccessi, fino a
formulare una opinione pubblica, che dovrebbe diventare il contenuto
della sovranità popolare, la pietra angolare della legittimità di un
sistema politico democratico. Infatti, la sovranità popolare, attraverso le istituzioni
parlamentari, produce poi diritto (dal fatto alla norma, per
l’appunto).
Egli ovviamente non intende sostenere che il processo
democratico abbia bisogno di una qualsivoglia “legittimazione etica” da parte
delle religioni. Piuttosto, richiamandosi a Kant, rivendica “una
giustificazione dei principi costituzionali autonoma e con pretesa di risultare
razionalmente accettabile da parte di tutti i cittadini”. D’altro canto, Habermas
riconosce come l’importanza e la quantità di sfide poste da quel fascio di
fenomeni convenzionalmente definito “globalizzazione” richieda un surplus di
virtù politiche che egli ritiene di poter rinvenire nelle grandi tradizioni
religiose del ceppo giudaico-cristiano, confortato anche dall’inadeguatezza interpretativa
del paradigma della secolarizzazione a fronte del recente “ritorno di Dio”
nelle società occidentali.
Pertanto le regole (le procedure democratiche) e i comandamenti
(della fedi religiose) concorrerebbero alla formazione di un processo
democratico che, seppure naturaliter contraddittorio, sarebbe ancorato
ad una visione dell’uomo-cittadino come essere relazionale (le regole rimandano
a un gioco di società). Quanto lontana sia questa visione olistica e
partecipativa dall’atomismo individualista del citoyen illuminista, lo
si può misurare anche nella versione anglosassone di sir Isaiah Berlin col suo
“liberalismo antagonistico”: pluralità inconciliabile di sistemi di valori sul
piano teorico, che però “non impedisce di trovare pragmaticamente una forma di
convivenza generale nella creazione di istituzioni politiche e giuridiche in
grado di garantire condizioni di vita dignitose per tutti”.
Sulla scorta di tutto ciò, non fa onore a Gustavo
Zagrebelsky riproporre in chiave irriducibilmente antagonista la dialettica tra
Chiesa e Stato nel suo editoriale apparso su la Repubblica il 17 ottobre
scorso. A dire il vero, è quantomeno azzardato riprendere una “concezione”
forte della statualità, come quella descritta nel 1967 dal Böckenförde, per
spiegare la nostra situazione postmoderna, dove il soggetto politico principale
non è più lo Stato “forte” ma il “debole” cittadino (il primo si è de-strutturato
preda delle globalizzazioni e dei localismi, delle autorità indipendenti e
della governance diffusa, delle rivendicazioni identitarie e infine dei suoi
stessi fallimenti in campo economico-sociale; il secondo, armato di qualche
carta dei diritti e delle ondivaghe forze mediatiche dell’opinione pubblica, rincorre
il velleitario traguardo della partecipazione e della mobilitazione
permanenti).
Purtuttavia, per l’ex
presidente della Consulta, lo Stato con la maiuscola non ammetterebbe di essere
“preceduto” da un’assiologia eteronoma, vincolando piuttosto la propria
sussistenza e vitalità a una pretesa equidistanza dal fatto sociale, ovvero a
una propria etica, che altro non può essere che l’etica della maggioranza. A
questo proposito, già Hans Kelsen, il padre della concezione formale della
democrazia, aveva fornito sorprendenti rilievi, quantunque in via riflessa e
aporetica. Nel suo Essenza e valore della democrazia del 1929, il grande
giurista austriaco, riflettendo sul meccanismo della maggioranza sottostante la
decisione politica, sottolineava contestualmente la necessità di garantire i
“diritti” della minoranza, proprio per permetterle di divenire anch’essa
maggioranza un giorno e non ostruire o aggirare le regole del gioco
democratico. Ma cosa sono questi diritti, se non diritti sostanziali di
libertà? In un contesto rigorosamente proceduralista la regola della
maggioranza funzionerebbe a prescindere dal rispetto di tali diritti, eppure
vediamo come lo stesso Kelsen avesse posto dei limiti di natura sostantiva alla
sua impalcatura formalista.
Per giunta, questo falso mito della neutralità dello Stato
riecheggia l’avalutatività dello scienziato sociale propugnata da Max Weber:
entrambe queste utopie, lo diciamo senza mezzi termini, hanno prodotto
disastri, la prima rovesciandosi nello Stato etico e nel totalitarismo, la
seconda erigendo la riproducibilità scientifica a unica discriminante della ricerca,
il cui esito emblematico del nostro tempo è l’uomo-chimera prodotto nei
laboratori britannici.
Per concludere, crediamo che la prospettiva del prof.
Zagrebelsky sia adombrata dal postulato, questo sì dogmatico e “precedente”,
della separazione dell’elemento religioso dalla società civile. Trattasi di una
questione di cittadinanza, in quanto implicherebbe la scissione nel cittadino
credente di un’identità spirituale da una meramente civile. Nulla di più
sbagliato, sia sul piano logico che su quello antropologico. Il fedele non ha
infatti alcun bisogno di bussare alla porta della società per farvi il proprio
ingresso, una volta depurato dalle “scorie religiose”: egli è ben al di là
della soglia in quanto cittadino comune, uguale agli altri, e vive nella
società per il solo fatto d’essere nato, come chioserebbe per l’ennesima volta
un estenuato Stagirita.
E a nulla serve agitare gli spettri di un ritorno alla
religione di Stato e alla res publica christiana, davanti a una Chiesa
che ha abbracciato la libertà religiosa nella Dignitatis Humanae e
ispirato gli estensori della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo,
se non a rinverdire stantii umori risorgimentali e rosapugnardi. Siamo davvero
certi che una guerra guerreggiata, anche se a bassa intensità, contro il
“nemico clericale” sia la soluzione ai mali della nostra Penisola?