La sfida più grande per Obama si chiama Pakistan
08 Novembre 2008
di Simone Nella
Sebbene siano trascorsi sette anni dalla caduta del regime talebano le condizioni di sicurezza in Afghanistan restano preoccupanti. Non si è avuto solo un aumento degli attacchi nell’area meridionale ed orientale del Paese – e il rischio di un loro incremento nella zona occidentale – ma la crisi si è progressivamente estesa anche Pakistan. I movimenti fondamentalisti talebani e i membri di al Qaeda hanno trovato un rifugio sicuro nelle aree tribali e nella provincia del nord ovest del Pakistan, da dove partono per lanciare imboscate e scorrerie contro le forze dalla Coalizione internazionale e le forze di sicurezza di Kabul. Questa situazione pone seri interrogativi sul futuro della regione tanto che ormai la gran parte degli osservatori sostiene che la questione pakistana e quella afghana siano legate inestricabilmente e che dovranno essere sciolte insieme.
La nuova amministrazione statunitense sembra essere consapevole che la via di uscita dal pantano afghano passi attraverso il Pakistan. Sin dall’inizio della sua campagna elettorale Obama ha posto come priorità della politica militare americana uno sforzo maggiore nel conflitto afghano puntando il dito direttamente contro il Pakistan. All’inizio del 2007 avevano suscitato molto scalpore le dichiarazioni dell’allora candidato democratico che, in caso di vittoria, prometteva di non esitare a inviare nuove truppe in Pakistan per stanare i terroristi asserragliati nelle remote regioni di confine con l’Afghanistan. Nello stesso tempo Obama ha messo in guardia il governo pakistano intimandogli di dare un nuovo impulso alle operazioni antiterrorismo oppure la futura presidenza valuterà l’ipotesi di un intervento militare in Pakistan e rimetterà in discussione i milioni di dollari in aiuti economici a Islamabad. Dello stesso avviso è stato il vicepresidente Jo Biden che, sempre lo scorso anno, in qualità di Presidente del “Committee on Foreign Relations” del Senato, aveva definito il Pakistan come il “Paese più pericoloso del mondo”.
Per superare questa “spirale verso il basso” (downward spiral come la chiamano gli agenti della intelligence statunitense) ha preso sempre più piede la volontà di aprire un dialogo con i talebani al fine di raggiungere una soluzione politica del conflitto. Nel 2009 si terranno le elezioni presidenziali in Afghanistan e quindi l’apertura di un canale negoziale da parte di Karzai con gli esponenti del movimento talebano potrebbe essere considerato come un chiaro segnale della sua disponibilità ad accogliere le frange meno estremiste del movimento nel futuro nuovo governo del Paese. Tutto questo, ovviamente, ha aperto un forte dibattito in seno alla NATO. Con la nomina del Generale David Petraeus a capo del Centcom – il Comando Centrale statunitense di Tampa – l’ipotesi negoziale e l’applicazione di nuove strategie di counterinsurgency sembrano guadagnare terreno. Appena insediatosi Petraeus ha fatto sapere di “dover parlare con il nemico” ma solo con coloro che prenderanno le distanze dai terroristi di al Qaeda e a patto che accettino la sovranità del governo afghano. Nella nuova “Dottrina Petraeus” un ruolo fondamentale lo avrà proprio il Pakistan e forse non è un caso che appena insediatosi il generale è volato a Islamabad per fare il punto della situazione con i responsabili della leadership politica e militare del “Paese dei Puri”.
Il tentativo di rilanciare i negoziati con gli insorti nasce dalla consapevolezza che non sia possibile raggiungere una vittoria in tempi brevi. L’attuale deterioramento della situazione di sicurezza in Afghanistan vanifica i successi delle operazioni di counterinsurgency e, al contempo, compromette gli sforzi nel processo di state-building. La prima sfida del generale americano sarà rivolta alla definizione di una nuova strategia cercando di cambiare le sorti di un conflitto che potrebbe divenire il vero incubo delle cancellerie occidentali (e non solo).
Durante il Vertice della NATO di Budapest, oltre ad essere stato approvato un accordo di nove punti sulla lotta al narcotraffico, si sono poste anche le basi per un nuovo incremento di forze militari che coinvolge per la gran parte solo gli Stati Uniti. Il nuovo “surge” afghano vuole creare una maggiore cornice di sicurezza nel Paese per le elezioni presidenziali e, allo stesso tempo, dovrà essere seguito da iniziative concrete a favore della popolazione e da una maggiore attenzione rivolta alle realtà tribali.
L’obiettivo sarà quello di cercare di rompere i forti legami che uniscono i talebani, i signori della guerra ed i narcotrafficanti, attraverso una maggiore comprensione delle dinamiche interne alla società afghana, in particolare nelle tribù pashtun. Grande attenzione sarà posta verso maggiori incentivi per rafforzare lo state-building e conquistare i “cuori e delle menti” della popolazione. Ma bisogna anche essere consapevoli che se ulteriori sforzi per la ricostruzione del Paese non riusciranno a portare in tempi rapidi alla fine del conflitto, potranno comunque servire a minare la compattezza dei gruppi eversivi e privarli del sostegno da parte della popolazione.
A tal proposito si sta discutendo sulla possibilità di dispiegare una forza di pace fornita dai Paesi musulmani, in grado di far fronte ad un possibile degenerare delle condizioni di sicurezza durante la campagna elettorale.
Contestualmente però sembra sia stata esclusa la possibilità di costituire delle milizie tribali, le cosiddette Lashkar, da affiancare alla forze di sicurezza regolari, l’Afghan National Army (ANA) e l’Afghan National Police (ANP). Questo principalmente per due motivi: il primo perché dal 2001 ad oggi l’alleanza con i signori della guerra ha portato a delle disastrose conseguenze, ed il secondo perché sia l’ANA che l’ANP essendo delle forze di sicurezza in fieri e non ancora in grado di garantire la sicurezza del Paese, potrebbero facilmente arruolare quei settori più eversivi che ora combattono lo Stato – attraverso “alleanze a geometria variabile” anche con gli irriducibili di al Qaeda – ma che domani potrebbero divenire i principali collaboratori delle forze internazionali nel neutralizzarli.
Sul fronte pakistano, la nuova amministrazione di Islamabad sta invece optando proprio per il riarmo delle milizie tribali, le stesse che hanno sempre contrastato l’ingerenza dello Stato nella regione tribale nord-occidentale del Pakistan abitata dai pashtun.
Tale strategia pakistana è criticata apertamente da alcuni osservatori in quanto potrebbe, nel lungo periodo, compromettere la sovranità territoriale di Islamabad e condurre ad un processo di “balcanizzazione” tale da estendersi – ad effetto domino – anche alle aree adiacenti all’Afghanistan. Sembra quasi che il governo pakistano stia giocando con il fuoco.
Un ulteriore elemento di incertezza di tale strategia è caratterizzato dal fatto che non necessariamente le nuove milizie pro-governative pakistane perseguano un islam moderato. Per esempio nel Waziristan meridionale, il Mullah Nazir, sebbene sia considerato il principale rivale del Movimento dei Taliban Pakistani (Tehrik-e-Taliban Pakistan) guidati da Mehsud, anch’egli comunque persegue una linea politica che non si distoglie molto dagli obiettivi che si prefiggono i talebani. Creando così una sorta di circolo vizioso che continua ad alimentare instabilità nella regione, e rendendo vano ogni sforzo al processo democratico e di governance.
I movimenti talebani afghani non devono essere considerati come organizzazioni omogenee, con strutture gerarchiche rigide e verticistiche, ma al contrario nuovi leader, più giovani e più radicali, stanno emergendo ed esautorando i vecchi comandanti.
Per avviare quindi un processo negoziale con i settori più eversivi, che mostrano interesse alle offerte di reinserimento e di partecipazione alla vita sociale e politica, bisogna essere certi che tali gruppi non tornino ad essere un fattore di elevata instabilità a livello sia regionale che mondiale, e che l’Afghanistan non continui ad ospitare gruppi terroristici che perseguono il jihad mondiale.
Ciò per potersi realizzare, necessita anche del coinvolgimento dei Paesi vicini, affinché diano un contributo costruttivo al processo di pace.
In tale contesto potrebbe essere utile promuovere una conferenza regionale, come proposto dal Governo italiano, nella sua qualità di Presidente di turno del G8 nel 2009, in cui vengano coinvolti i Paesi confinanti oltre ai principali rappresentanti delle istituzioni internazionali. Il confronto potrebbe essere un’occasione per superare i sospetti e le incomprensioni, facendo presente che la stabilizzazione dell’Afghanistan è essenziale per qualsiasi successo nella lotta al terrorismo ed al narco-business, e quindi per la stabilità e la prosperità di tutta la regione.