La Sinistra che criticava lo Statuto dei Lavoratori ora lo difende a spada tratta

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La Sinistra che criticava lo Statuto dei Lavoratori ora lo difende a spada tratta

24 Maggio 2010

A cercare negli atti ufficiali – in occasione del suo quarantesimo anniversario – si scoprirebbe che il dibattito che accompagnò l’approvazione dello Statuto dei lavoratori non fu una marcia trionfale, ma un cammino pieno di polemiche e di contrasti. Soprattutto a sinistra. Il Pci si astenne, dopo aver rivolto al progetto delle critiche molto severe all’impianto strutturale della legge n.300 del 1970 perché aveva un contenuto promozionale dell’attività del sindacato, ispirato, grazie all’impegno culturale di Gino Giugni (allora capo dell’ufficio legislativo del ministro Carlo Donat Cattin) alla più moderna legislazione in vigore nei Paesi occidentali (a partire dal Wagner Act del 1935, un caposaldo del new deal rooseveltiano).

Tale impostazione era contrastata, in particolare, da un gruppo di giuslavoristi, raccolti intorno alla "Rivista giuridica del lavoro", vicina alla Cgil, i quali sostenevano la linea dei diritti individuali riconosciuti ai lavoratori e non al sindacato. Non era la prima volta che Giugni era costretto a misurarsi con quei giuristi – comunemente definiti neocostituzionalisti – capitanati da Ugo Natoli. Alcuni anni prima, vi era stato un duro confronto sui temi dell’arbitrato, di cui Giugni era un convinto sostenitore.

Nel suo fondamentale saggio del 1960 Introduzione allo studio dell’autonomia collettiva, Giugni aveva scritto nel V Capitolo: “Può così avvenire che, in questa zona grigia tra il diritto dei privati e l’ordinamento statuale, in cui si svolge il rapporto di interferenza e di tensione tra l’autonomia originaria e le autonomia derivate dal sovrastante potere dell’organizzazione politica, facciano la loro comparsa istituti predisposti a realizzare quelle funzioni di dichiarazione del diritto, di composizione eteronoma dei conflitti o addirittura di applicazione della sanzione nelle quali in rapporto a peculiari atteggiamenti dottrinali o a specifiche strutture positive si è di volta in volta ravvisata l’essenza della giurisdizione. (…) Tra l’arbitrato come pure espressione di autorità sociale (…) e l’arbitrato rituale che (…) è un istituto schiettamente processuale e in un certo senso pone il processo nelle mani dei privati, si inseriscono quelle ibride strutture (…) di cui lo Stato non sfiora che la cornice esterna, percepisce effetti giuridici rilevanti ma ignora la specifica finalizzazione istituzionale.(…) E’ al contrario la spontanea risposta dell’ambiente sociale alle sempre più complesse esigenze della tecnica e della produzione, all’enuclearsi di forme di permanente contatto sociale, di fronte alle quali l’idea dell’individuo isolato di fronte all’apparato di tutela dello Stato è tramontata per sempre”.

Dieci anni dopo la pubblicazione del saggio, al grande giurista genovese toccò in sorte di essere il principale protagonista dello Statuto (Giugni presiedette la commissione tecnica che preparò il testo del disegno di legge, poi lavorò con Giacomo Brodolini, prematuramente scomparso e con Carlo Donat Cattin che aveva preso il suo posto). Ma la sua linea culturale era osservata con il solito sospetto, e criticata in modo molto duro. Come già ricordato, era sostenuta dal gruppo dei giuristi, definiti neocostituzionalisti, un’istanza siffatta: sono i lavoratori titolari dei diritti sindacali, non il sindacato; in azienda i lavoratori devono poter esercitare anche i diritti politici, quindi la fabbrica deve aprirsi ai partiti. 

Queste tesi sono ora superate e lo Statuto è difeso ad oltranza proprio dagli eredi di quella sinistra che allora lo criticava e che adesso ha aperto una campagna per l’immodificabilità della legge n.300. Giugni, però, non stava a guardare, ma faceva valere i suoi buoni argomenti (alla fine risultati vincenti). Citiamo un suo scritto di quel periodo con il quale Giugni replica alle critiche dei neocostituzionalisti. Sono parole e concetti validi anche oggi. "I diritti costituzionali, infatti – scriveva Gino Giugni – non sono tutti esercitabili in qualsiasi circostanza di tempo e di luogo. Ognuno deve essere libero di leggere il giornale, ma evidentemente non può farlo quando dovrebbe lavorare o in luogo destinato ad altre funzioni qualora ciò rechi ostacolo allo svolgimento di queste ultime”. Giugni replicava, anche, a quelle "anime belle" che, col pretesto dei diritti costituzionali, rivendicavano dallo Statuto la possibilità di svolgere attività politica nei luoghi di lavoro.

"Non si può imporre all’imprenditore di collaborare alle attività di natura politica ponendo a disposizione i locali o muri per affissioni, concedendo tempi liberi, permessi o così via. Quanto meno questa non è una direttiva di carattere costituzionale". E concludeva con la sua penna arguta e brillante: "Se la rivendicazione sostenuta con tanto zelo risultasse essere soltanto il riflesso di una posizione di principio basata su una discutibile interpretazione del dettato costituzionale, vi è da chiedersi come il marxismo-leninismo nella sua mediazione togliattiana sia giunto a ridursi ad una strategia politica alimentata da un mero neocostituzionalismo, per giunta (vedi l’insistenza sui diritti individuali dei lavoratori) di impronta assolutamente individualistica". Il senso di queste considerazioni si ritrova ancora oggi nel dibattito sull’arbitrato. I giuristi vicini alla Cgil esprimono la convinzione della superiorità – se non addirittura della esclusività – della giurisdizione ordinaria, in nome di una concezione statualistica del diritto. E, al solito, pretendono che le persone in carne ed ossa si comportino secondo i dettami della loro ideologia.

Per far cadere il castello di carta della loro incomprensibile ostilità all’arbitrato secondo equità nelle controversie di lavoro sarebbe sufficiente una semplice domanda: quanti sono i dipendenti privati (soprattutto se impiegati in un’azienda di modeste dimensioni dove il rapporto con il titolare è personale e quotidiano ovvero quegli stessi lavoratori che sono presentati come le vittime di possibili forzature nella sottoscrizione della clausola compromissoria) che prendono l’iniziativa di citare in giudizio l’azienda in costanza di rapporto di lavoro?  Pochissimi, evidentemente. Ancora una volta è la concreta realtà dei fatti a sconfiggere la sinistra. Ecco, dunque, una ragione in più per introdurre delle procedure di risoluzione stragiudiziale delle controversie, sicuramente meglio fungibili, anche nell’interesse del lavoratore.