La sinistra e i liberali. Cosa promettono sulla cultura (e sul Colosseo)
22 Febbraio 2013
Che si parli di cultura è già una notizia visto che in questa campagna elettorale il tema è stato relegato nella zona Cesarini dei dibattiti televisivi. Quando invece ne conosciamo bene l’importanza strategica. Naturalmente però le opinioni e le proposte divergono in base alla prospettiva politica da cui guardiamo alla questione e bene ha fatto l’Huffington Post a pubblicare nei giorni scorsi due interventi che espongono il punto di vista della sinistra e quello liberale, permettendo quindi una comparazione dei rispettivi programmi per valutarne efficacia e praticabilità.
Il primo documento è "l’agenda" elaborata dal Centro Studi di Fondazione Magna Carta, il think tank liberale presieduto dal vicepresidente vicario dei senatori Pdl, Gaetano Quagliariello. Il secondo è il programma a cura di Massimo Bray, candidato alla Camera con il Pd in Puglia e direttore editoriale dell’Istituto Treccani. Se i due documenti condividono alcuni punti – il valore della tradizione nazionale piuttosto che la centralità delle persone nelle dinamiche culturali – divergono però nella impostazione di fondo sul ruolo e sul rapporto tra pubblico e privato, e sul funzionamento del lavoro culturale.
Da una parte c’è l’impostazione tradizionale della sinistra, incentrata sul ruolo della mano pubblica come soggetto principe in grado di garantire la sostenibilità del nostro patrimonio millenario. Si può riassumere questa visione nella frase di Bray secondo il quale: “La cultura non è una merce che si può comprare e vendere, apprezzare e deprezzare secondo l’utilità del momento”, un retaggio di quella mercificazione che è stata per decenni la bandiera della sinistra italiana contro qualsiasi inquinamento privatistico. Una gestione statale dei “beni comuni”, come li chiama Bray, che filosoficamente risale al concetto di mercificazione dell’arte come caratteristica del modo di produzione capitalistico.
Dall’altra parte la proposta ‘rivoluzionaria’ di Magna Carta che intende mettere i privati nella condizione di entrare (e di restare), con i loro capitali, nel mondo della cultura. Quest’ultima viene concepita come “un elemento che può contribuire allo sviluppo non solo ideale ma anche materiale della società: con una gestione oculata dei finanziamenti, promuovendo la competizione e attraverso meccanismi trasparenti”. Una proposta che si estende anche alle nuove forme di sperimentazione culturale come il web, investendo problematiche come la proprietà intellettuale su Internet e la questione del “digital divide”.
Ma per capire meglio perché siamo davanti a due prospettive tra loro incompatibili e contrapposte occorre un esempio concreto e quello più adatto sembra il destino del Colosseo, il millenario monumento di Roma, una delle sette meraviglie del mondo resa immortale nella cultura pop dal film “Vacanze Romane”. Bray è molto netto: “Ritengo un errore che lo Stato si sia rivolto ai privati per il restauro del Colosseo, il patrimonio artistico e culturale del Paese non può essere ceduto a logiche privatistiche”.
Il candidato del Pd fa riferimento all’accordo tra il Comune di Roma e l’imprenditore Diego Della Valle, sotto gli auspici dell’allora governo Berlusconi, che vede il Gruppo Tod’s impegnato nei lavori di restauro in cambio dell’esclusiva (15 anni, rinnovabili) sulla immagine mondiale del monumento. 25 milioni di euro che probabilmente il Comune di Roma e lo Stato italiano avrebbero avuto non poche difficoltà a sborsare in tempi di crisi come questi.
Bray sembra schierarsi con quanti nel 2011 gridarono scandalizzati all’accordo, trasformandolo nell’ennesimo spunto per polemizzare contro il Cavaliere (indimenticabile un pezzo del Pais dove si leggeva che Berlusconi aveva superato “la prodezza di Totò”, il titolo era Berlusconi abre sus brazos a la privatización del Coliseo romano). Eppure le condizioni del monumento già allora sembravano preoccupanti (oltre 3.000 lesioni, fessurazioni, cedimento di 40 centimetri nel 2012…) e i lavori di restauro più consistenti erano fermi agli anni Novanta.
Secondo la vulgata, Della Valle avrebbe beneficiato di un favore fattogli dall’ex premier e dal sindaco di Roma, pronti a “svendere” un bene comune. Poco importa se l’imprenditore toscano non è uomo di destra, oltre ad aver sempre assicurato di non voler sfruttare il monumento “a fini commerciali”, giudicandolo “un patrimonio di tutti gli italiani”.
L’opposizione dura dei sindacati, le manifestazione naif dei “centurioni” che protestavano vedendo a rischio i loro piccoli business, i ricorsi presentati al Tribunale di Roma e alla Corte dei Conti, le denunce del Codacons e delle aziende concorrenti tagliate fuori dal progetto, insomma tutto l’armamentario giuridico e burocratico che reagisce immediatamente quando si tocca il nervo scoperto dell’uso privato di beni pubblici, ha fatto sì che a oltre un anno di distanza i lavori di restauro non siano ancora iniziati. All’inizio di Febbraio, una sentenza del Tar del Lazio ha dato ragione a Della Valle (non è la prima).
La notizia farà arricciare il naso a chi non sopporta la “cultura leggera” ma anche grazie al ritorno di immagine dell’operazione messa in piedi dal padrone di Tod’s siamo riusciti ad attirare nei pressi del Colosseo una star dell’industria discografica globale come Madonna, decisa ad aprire da quelle parti una delle sue superpalestre. Al di là di questa nota di colore, che pure è sinonimo di valore, l’impressione generale è che sulla privatizzazione dei beni pubblici la sinistra giochi una partita di retroguardia avendo perso la sua carica innovativa. Si agita lo spauracchio della “mercificazione” per supplire alla mancanza di proposte realmente alternative. Si esagera nella denuncia in modo tale che le cose restino come stanno.
In discussione, infatti, non è tanto la (s)vendita del Colosseo (che pure potrebbe essere percorribile per pezzi meno pregiati del patrimonio culturale dello Stato) quanto la sua concessione ai privati. Una (buona) pratica che in Gran Bretagna, tanto per fare un esempio di democrazia avanzata, ha spinto i governi a dare in mano ai privati un gran numero di siti storici che in questo modo possono essere ristrutturati più facilmente, vissuti dai cittadini e resi oggetto di commercio e profitto.
Ragionando da un punto di vista liberale l’obiettivo non è quello di cancellare il controllo statale, bensì di aumentare la competitività culturale. Altri Paesi hanno meno di noi ma sanno usarlo meglio, è un refrain che sentiamo ripetere spesso. Lo Stato può fare un passo indietro dalla proprietà senza rinunciare alla regolazione, come ha scritto Andrea Mingardi: “lo Stato definisce una cornice di regole generali, la sua conduzione e valorizzazione può benissimo essere lasciata ai privati”.
Due modelli di governo della cultura, dunque. Bray denuncia la riduzione del Colosseo a “grigio spartitraffico” ma non sembra offrire soluzioni sostenibili che non siano quelle già praticate dall’interventismo pubblico in materia di conservazione dei beni culturali negli ultimi decenni. Come finanziare la cultura? Riducendo le spese militari (sic). Magna Carta vuole generare una strategia integrata pubblico-privato dove il capitale non sia un mostro da tenere a distanza ma il valore aggiunto che favorisca la manutenzione, la promozione e l’accesso al patrimonio storico e artistico del Belpaese.