La sinistra ha bisogno del conflitto di classe per questo teme la legge Biagi
19 Ottobre 2007
Nella giornata di sabato 20 ottobre si confronteranno a distanza ravvicinata, a Roma, due manifestazioni sullo stesso tema – il lavoro – ma contrapposte nel merito e nel metodo. Da un lato, nel chiuso di una sala, attraverso tre tavole rotonde, numerosi esponenti del riformismo politico e sociale ragioneranno dei modi con cui dare valore al lavoro in un Paese nel quale esso è stato spesso mortificato dalla cappa ideologica della sinistra conservatrice. Dall’altro, proprio questa sinistra, nella piazza, attraverso parole d’ordine gridate dai megafoni, ribadirà tutti i suoi pregiudizi sul lavoro, sull’impresa, sulla persona.
Il nome di Marco Biagi sarà evocato da una parte e dall’ altra, ora a proposito, ora a sproposito, chi per onorarIo, talora con una retorica che egli non avrebbe amato, chi per demonizzarlo, talora con un livore che egli non avrebbe capito.
La sinistra reazionaria si propone di condizionare il “suo” governo, di delegittimare le parti sociali che hanno sottoscritto un faticoso punto di equilibrio nelle condizioni date, di ottenere ulteriori modifiche alla legge Biagi -o, come direbbero, alla legge 30 -nel presupposto che con un tratto di penna legislativo si possano rimuovere le patologie e le debolezze nel mercato del lavoro.
I riformisti vogliono, chi dall’opposizione, chi dalla maggioranza, rifiutare il ricatto degli ultimi comunisti, esaminare lo stato di attuazione di una riforma che è ancora in parte un giacimento inespresso, definire un’agenda di atti e comportamenti utili ad alzare il valore del nostro capitale umano secondo gli obiettivi del processo comunitario di Lisbona.
Essi possono rendere onore a Marco Biagi solo se ne apprezzano le fondamentali intuizioni di merito e di metodo più che la lettera delle singole disposizioni, assumendo l’impegno di proseguirne l’opera con la stessa ansia di produrre effettivi risultati, a partire da un ancor più robusto incremento del tasso di occupazione. Nonostante il positivo andamento dell’occupazione nell’ultimo decennio, in corrispondenza con le due riforme ispirate da Marco, l’Italia rimane il Paese con le più modeste percentuali di occupati tra 15 e 64 anni, il peggiore divario territoriale e di genere, la più elevata incidenza di lavoro irregolare. La direzione intrapresa appare quella giusta ma essa deve essere perseguita con maggior coerenza e determinazione.
Rimane ancora rilevante in Italia quella diffidenza dell’imprenditore nei confronti del fattore lavoro che ha determinato i più alti investimenti in tecnologie labour saving, giustificata dalla complessità delle regole, dall’elevato prelievo fiscale e contributivo, dall’intensità esasperata delle relazioni industriali. Il fondamentale diritto del lavoratore al continuo incremento delle proprie conoscenze e competenze in funzione di una permanente occupabilità qualunque sia la sorte dell’impresa rimane spesso sulla carta. Il naturale corrispettivo di una retribuzione equa è negato da una contrattazione centralizzata che fa i salari piatti e moderatamente progressivi come da una tassazione che penalizza l’impegno e il merito.
I riformisti sanno quindi che non si tratta solo o tanto di “difendere” la legge Biagi ma di costruire una nuova stagione riformatrice, isolando necessariamente coloro che, antistoricamente, rifiutano la centralità della persona in carne ed ossa per privilegiare l’astratta idea di avanguardie rivoluzionarie incaricate di promuovere il “virtuoso” conflitto di classe.