La sinistra impari da Hitchens cos’è stata la Guerra in Iraq

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La sinistra impari da Hitchens cos’è stata la Guerra in Iraq

17 Dicembre 2011

E’ noto cosa pensa la sinistra italiana della presidenza Bush e della guerra in Iraq. Il conflitto che portò al rovesciamento del regime di Saddam Hussein viene considerato un grande errore, una guerra combattuta su prove false, un rimedio peggiore del male. Nel 2006 fu il governo d’Alema, presente quel Giulio Terzi di Santagata oggi inquilino della Farnesina, ad annunciare all’amministrazione americana che l’Italia si sarebbe ritirata dall’Iraq, dopo aver versato il proprio tributo di sangue a garanzia della libertà degli iracheni. Quello stesso D’Alema che il popolo e i pensatori della sinistra nazionale hanno sempre criticato per la sua decisione di bombardare la Serbia in difesa dei kosovari.

Ma in Occidente, perlopiù nel mondo anglosassone, c’è un’altra sinistra, minoritaria e che sa imporre la propria voce. Una sinistra che ha difeso nei suoi principi e con convinzione la guerra in Iraq, a costo di rompere con il fronte dei conformisti persi dietro le fumisterie del pacifismo come del ribellismo arcaico che tanto piace ai postmoderni. Qualche esempio fuori dal coro? Il compianto Cristopher Hitchens. Nelle ultime 48 ore i giornali italiani si sono dilungati nel ricordare l’ateismo militante e le provocazioni intellettuali di ‘"Hitch", che una volta se la prese persino con Madre Teresa di Calcutta, accusandola di corruzione. Si è discusso meno, ma era prevedibile, dell’endorsement che lo scrittore inglese fece verso il presidente Bush, dopo la decisione degli Usa di invadere l’Iraq per liberarlo.

Non abbiamo letto granché sulle "relazion pericolose" (per l’establishment e il pensiero unico di sinistra) tra intellettuali come Hitch e i neoconservatori "annidati nella Casa Bianca" che trasformarono un presidente repubblicano riottoso ad intervenire in politica estera nell’alfiere dell’internazionalismo democratico. Teoria, quest’ultima, sposata da chi come Hitch credeva nel materialismo storico e in un’idea di progresso ed espansione della civiltà, convinto che neanche Marx avesse colto appieno e fino in fondo le enormi potenzialità della rivoluzione capitalistica in termini di esportazione dei valori individuali, di libertà e di soddisfacimento dei bisogni umani.

L’Occidente, ragionava lo scrittore inglese, e gli Stati Uniti in particolare, per troppi anni avevano acconsentito che la dittatura baathista si perpetuasse; era venuto il momento di fare i conti con il fascismo islamico, quella concrezione romantica del Corano che sogna di abbattere il mondo moderno e farci rimpiombare nel medioevo. Hitchens avrebbe scontato presto le sue idee, costretto a lasciare The Nation dopo aver ingaggiato sul tema dell’Iraq il guru del marxismo americano Chomsky. La guerra contro Saddam per la sinistra europea e americana è sempre stata come il multiculturalismo: sono totem che non possono essere abbattuti. Chi ci prova è un chierico fanatico.

Negli Usa e in Gran Bretagna persone come Hitchens hanno saputo accendere il fuoco sacro della discussione nel recinto degli schematismi e dell’ortodossia. Studiando il loro pensiero, si può comprendere meglio le suggestioni illusorie e del tutto fuori dalla storia dei no-global, il ritardo culturale di chi nel movimento (erano gli anni Novanta) teorizzava la "terza via" con la jihad, un’alleanza strategica globale per combattere lo Stato delle multinazionali.

Hitch giudicava quelle ideologie alla stregua di deprecabili "ismi", nostalgici di un’arcadia pre-capitalista, ciechi di fronte alla guerra mondiale islamica scoppiata negli anni Settanta, insensibili davanti alla lotta di liberazione dei popoli arabi; e riproponeva il senso di una dialettica propriamente moderna, tra sviluppo e reazione, rendita feudale e povertà dilagante, totalitarismo ed autoritarismo religiosi, amore per la morte, pulsioni nichiliste e voglia di cambiamento, primavera delle coscienze.

In Italia della temperie legata alle provocazioni di Hitch resta ben poco a sinistra, in un panorama culturale fermo, vecchio e stantio, che ha smesso di fare i conti con la storia delle idee dall’89 ed in misura assai maggiore dopo il 9/11.