La Siria bleffa ma scherza col fuoco

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La Siria bleffa ma scherza col fuoco

13 Giugno 2008

Per la diplomazia di Damasco le trattative di pace con gli israeliani sono sempre state una forma di competizione. Vincerle significa riprendersi il Golan e dimostrare alla Lega Araba che si possono strappare a Israele nuovi pezzi del suo territorio. Come vorrebbe Teheran.  

La settimana scorsa il presidente siriano Bashar Assad è volato a Kuwait City per incontrare i leader dei Paesi del Golfo. Si è parlato di relazioni bilaterali e degli sviluppi della situazione regionale e internazionale, ossia del recente tentativo turco di riaprire i negoziati tra Siria e Israele. In ballo c’è la “restituzione” del Golan, i territori occupati da Tel Aviv dopo la Guerra del ’67. La Siria fu uno dei paesi fondatori della Lega Araba e Bashar vuole accreditarsi come l’uomo della mediazione di fronte alle ricche petrocrazie arabe. Il Qatar, per esempio, che si è rivelato fondamentale per chiudere l’accordo con il Libano sancito dall’elezione del presidente Suleiman. Quest’ultimo ha dichiarato di essere pronto a coltivare “legami fraterni con la Siria”, lo stesso stato che ha occupato militarmente il Libano per anni e continua a destabilizzarlo attraverso le milizie di Hezbollah. 

In Kuwait, Assad ha detto che le trattative con Israele non riprenderanno prima del 2009 e che “la data dipende da Israele stesso. C’è una crisi legata al primo ministro Olmert”. Riflettiamo un attimo sullo strano caso di un presidente che ama riempire le piazze di Damasco con le sue gigantografie – il successore di una dinastia che ha sempre governato il Paese con il pugno di ferro – che si permette di fare la morale a Olmert, un premier eletto in modo democratico, tanto democratico che adesso rischia il posto se verranno confermate le accuse di corruzione che lo vedono incriminato. In Siria quale tribunale avrebbe il coraggio di rovesciare Assad? Figuriamoci se i giuristi islamici stanno a pensare alle procedure di impeachment. Preferiscono concentrarsi sulla sharia vietando i matrimoni misti.  

Il rischio per Olmert è di cadere in un gioco in cui gli Assad, padre e figlio, sono sempre stati abilissimi. Usare la diplomazia per annacquare i loro problemi interni e conservare il potere. Olmert sa che l’Autorità Palestinese è debole e che le trattative con i successori di Arafat languono. Con Hamas neanche a parlarne, è guerra aperta. Così i siriani diventano gli interlocutori buoni per ritrovare un po’ di consenso davanti all’opinione pubblica israeliana, piuttosto sfiduciata dalla performance del primo ministro ma pronta a ricompattarsi davanti alla parola pace. Nel frattempo Assad potrà tranquillamente riprendere i lavori del reattore di Tibnah che, a sentire Damasco, è solo una sporca invenzione della Cia. 

Il problema è che la Siria rimanda all’infinito ogni decisione con una tecnica dilatoria che va avanti nello stesso identico modo da decenni. Ha scritto Daniel Pipes sul New Republic: “L’obiettivo di Assad non è la pace, ma il processo di pace. Egli partecipa ai negoziati senza la minima intenzione di portarli a termine. Il fatto di intavolare delle discussioni apparentemente impegnative gli permette di migliorare i suoi rapporti con l’Occidente senza dover aprire le frontiere del suo paese. Assad può strizzarci l’occhio mantenendo i suoi legami con l’Iran e dando ospitalità a una gran varietà di gruppi terroristi”. In questo modo Damasco è riuscita a perfezionare un asse geopolitico che dalla Siria porta in Libano, trova il suo baricentro in Iran, e si distende verso l’Iraq di Maliki e la Turchia di Erdogan.

Ecco una tipica dichiarazione di Assad: “Noi abbiamo espresso la nostra visione della pace e aspettiamo il responso di Israele. Tuttavia gli sforzi che stiamo facendo per dialogare con Israele non sono incoraggianti e quindi quello che stiamo facendo ora è verificare se Israele è pronto alla pace”. Mostrarsi aperti e dialoganti interpretando il ruolo dei perseguitati è il copione preferito da Assad per allungare all’infinito i tempi della riconciliazione. Parola chiave di questa vittimologia è la “restituzione” del Golan, una terra che in realtà la Siria ha perso dopo aver invaso Israele cercando di distruggerlo.        

L’importante dunque non è firmare un accordo ma rafforzarsi di fronte agli Usa come interlocutori credibili. Assad sa che senza lo sponsor internazionale degli Stati Uniti non si va da nessuna parte ma soprattutto teme le infiltrazioni filoamericane all’interno della nomenklatura siriana (vedi il recente siluramento di suo cognato, il capo degli 007, Shawkat).

Una bella mossa, quindi, coinvolgere Washington nelle trattative siro-israeliane sapendo che Bush è concentrato sulla questione palestinese; complicargli la vita rendendosi disponibili, disponibilissimi, come hanno fatto i siriani ritirandosi dal Libano, partecipando alla Conferenza di Madrid e agli incontri di Annapolis, riconoscendo il nuovo governo iracheno e lavorando con il governo turco. Tutto questo mentre armavano i killer del presidente libanese Hariri, sostenevano il terrorismo iracheno contro l’esercito americano in Iraq, foraggiando con discrezione Hamas e l’Hezbollah. Poggiarsi ad Ankara è stato un altro piccolo capolavoro diplomatico. La Turchia sempre più islamizzata vuole dimostrare all’Occidente di essere ancora l’alleato credibile di una volta. L’unico modo per entrare in Europa è svolgere un ruolo costruttivo nel processo di pace tra arabi e israeliani. Così Erdogan  ha scelto di partecipare al balletto diplomatico siriano. 

La domanda non è se Assad sta bleffando ma perché. “Non ci possiamo permettere il lusso di perdere tempo – ha spiegato una ruvida Liz Cheney all’AIPAC – l’ora della diplomazia sta per finire”. Gli Usa sono pronti a un nuovo intervento militare contro l’Iran. Assad teme di fare una brutta fine e cerca di tenere due piedi in una scarpa. Il poliziotto buono (la Siria) viene in avanscoperta mentre quello cattivo (l’Iran) agita il manganello. Ma chi è Bashar Assad e a che punto è l’alleanza tra la Siria e l’Iran? Parliamo di Paesi diversi tra loro e uniti dall’odio verso Israele. La Siria è un regime laico e secolare, uno stato socialisteggiante a maggioranza sunnita, guidato dalla minoranza alawita a cui appartengono gli Assad. I siriani non hanno mai amato la rivoluzione sciita anche se Assad Padre si legò indissolubilmente ai teocrati iraniani sperando che riuscissero a sconfiggere il rivale Saddam Hussein (un odio tanto profondo da spingere la Siria a partecipare alla Prima Guerra del Golfo a fianco degli Stati Uniti). 

Per Teheran l’asse con la Siria è fondamentale a rompere il muro di ostilità stretto dai Paesi arabi sunniti intorno all’Iran sciita. Assad non ha l’insolenza tipica di Ahmadinejad e vorrebbe farci credere che la pace con Teheran è possibile, anzi auspicabile. Nel frattempo i ministri della difesa siriani e iraniani firmano accordi di cooperazione militare. Perché è sempre stata questa l’essenza dell’alleanza siro-iraniana, un patto fondato su interessi strategici e politici piuttosto che su relazioni economiche.     

L’economia siriana infatti è allo sbando. Le lunghe sanzioni, il deficit petrolifero e un mostruoso statalismo che divora metà del bilancio statale, sono le principali ragioni che hanno spinto Assad a saltare come una trottola tra Kuwait e Qatar in cerca di investimenti. Il ministro delle finanze siriano ha ammesso sconsolato al giornale londinese al-Awsat che Damasco non possiede “abilità tecnologiche” tali da garantire la sicurezza economica del Paese. Avere l’Iran come principale partner strategico si è rivelato un modesto beneficio economico. Lo dicono i dati. Kuwait e Qatar investono in Siria il triplo dell’Iran, milioni di dollari in turismo e programmi di edilizia, mentre la maggior parte dei progetti con gli iraniani restano accordi sulla carta. L’unica cosa che conta per Teheran, e per gli investitori che fanno capo a Rafsanjani, è il controllo delle forniture energetiche, il collare necessario a tenere la Siria in uno stato di vassallaggio. L’impressione è che gli scambi economici tra i due paesi siano semplicemente una copertura dei rispettivi interessi politici. L’Iran non ha niente da perdere dalla (fallimentare?) iniziativa turca e Assad si sta rivelando il lungo braccio diplomatico di Teheran sul territorio israeliano. Il cavallo siriano s’incunea tra i due fronti dello scacchiere islamico.  

Come interpretare la psicologia di Assad che annuncia “la Siria non ha intenzione di entrare in guerra in caso di un attacco militare all’Iran” e contemporaneamente avverte “Ci sono segnali che indicano che Israele non desidera la pace”? Questo quarantenne che ha studiato da oculista, e che si è trovato inaspettatamente alla guida del Paese dopo la morte del fratello maggiore, ha assimilato perfettamente gli insegnamenti della classe dirigente sopravvissuta al Padre. Per anni il giovane Assad ha finto di avviare una riforma vellutata riempiendosi la bocca di parolone come diritti civili e libertà religiosa per poi fare regolarmente marcia indietro quando veniva il momento di trasformare le promesse in fatti. Assad guarda sempre al futuro, vorrebbe passare alla storia siglando la pace con i successori di Olmert e di Bush, ma in passato ha definito Israele uno stato “più razzista del nazismo” e gli israeliani come “i traditori di Gesù Cristo”. Il presidente è un duro che fa il debole o un debole che cerca di fare il duro, il suo mistero è tutto qui. 

La verità è che la Siria continua a essere dominata da un partito-stato che occupa ogni aspetto della vita quotidiana dei suoi cittadini. L’unico scopo di Assad è rimanere stoicamente attaccato al potere e non importa se per riuscirci dovrà fare la pace con Israele oppure dichiaragli guerra un’altra volta. L’importante è guardarsi dai nemici nascosti dentro il palazzo (quei siriani che guardano con favore agli Usa e alla base sunnita) e fuori (i dissidenti a cui viene impedito di riunirsi nelle piazze). Il riformismo arabo è la vera ondata del cambiamento che prima o poi travolgerà l’autocrazia siriana. Per restare in tema di matrimoni, il 64% degli studenti siriani si batte per ottenere il matrimonio civile e circa l’80% condanna gli omicidi d’onore e le persecuzioni subite dalle donne. Inseguendo complicate trame strategiche e contorti processi diplomatici, gli alawiti hanno perso il contatto con la realtà. Forse Assad non si è reso conto di essere sull’orlo del precipizio.