La Siria ringrazia Barack Obama nobel per la pace

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La Siria ringrazia Barack Obama nobel per la pace

05 Aprile 2017

Tutto si tiene in Siria, la guerra, le armi chimiche, i russi e gli americani, Obama e Trump, Putin e il “Russiagate”. Andiamo con ordine. La Siria per Obama è come l’Iraq di Bush figlio, un fallimento, solo che Bush rovesciò un regime che gasava gli avversari interni, mentre Obama ha lasciato in sella un altro regime che continua a usare agenti chimici contro nemici e popolazione civile. Questo almeno è quello che affermano, foto e filmati alla mano, le Ong internazionali. Obama avrebbe potuto rovesciare il regime siriano quando Assad superò per la prima volta la “linea rossa”, usando armi non convenzionali nella repressione di quella primavera araba vagheggiata ingenuamente dal presidente democratico e che si era rapidamente trasformata sotto gli occhi inermi della comunità internazionale nella insorgenza jihadista e poi nel tumore dello Stato islamico. Ma Obama non lo fece, fedele alla sua strategia di guidare dall’esterno le “arab spring”.

Dei lunghi anni della guerra in Iraq, nella tragedia, si ricordano almeno alcuni momenti di luce, la macchia di inchiostro sulle dita degli iracheni che tornavano a votare liberamente o quasi dopo tanto tempo, per fare solo un esempio. La strategia americana per recuperare l’insorgenza sunnita nel post baathismo, un altro. In Siria invece c’è sempre stata soltanto una spirale di violenza incontrollabile, mentre le Nazioni Unite si riuniscono, il Consiglio di sicurezza è bloccato, e l’Europa lancia moniti inconcludenti. Dentro la Ue, e fuori, continuano ad esserci Paesi che hanno sostituito il mito della esportazione della democrazia dei tempi di Bush con i propri legittimi ma parziali interessi di potenza – vedi Francia e Gran Bretagna, avversari di Assad come lo furono di Gheddafi. Due stati che hanno evocato il golem dei foreign fighters e adesso temono che il mostro gli si rivolti contro, con il terrorismo in casa e i blitz fin sotto il parlamento inglese. 

Obama commise un errore madornale a lasciare in sella Assad quando poteva dargli la spallata, e il posto degli americani lo hanno preso i russi, grazie al protagonismo mostrato da Putin, che ha rimesso il cappello sulla sovietica ‘mezzaluna verde’ – l’area di influenza di Mosca che corre da Damasco a Teheran. Ma l’attentato jihadista a San Pietroburgo e il presunto attacco chimico dei lealisti contro le forze vicine ad Al Qaeda in Siria, che ha quasi il sapore di una rappresaglia, non fanno correre le lancette della storia verso la pace. Mentre il governo siriano smentisce di essere l’autore dell’attacco, e voci incontrollate parlano di depositi con armi non convenzionali nelle mani dei jihadisti, colpiti durante lo “strike” dei lealisti siriani. La strage però c’è e quello conta.

Tutto si tiene nella guerra in Siria perché, saltando alla politica americana, e al Russiagate, lo scandalo del presunto spionaggio ordinato da Obama ai danni del candidato Trump prima delle elezioni, salta fuori che sarebbero stati proprio ambienti obamiani esaltati dalle primavere arabe – Susan Rice, l’allora potente consigliere per la sicurezza nazionale, smentisce – a far filtrare i “leaks”, le rivelazioni sullo spionaggio ai danni del Don. Ma cosa si scoprirebbe se queste notizie fossero confermate? Che l’entourage di Trump cercava una soluzione per la Siria che tenesse dentro i russi ma lasciasse fuori dalla porta l’Iran nucleare. Se pure quegli incontri riservati ci furono l’argomento era trovare una soluzione ai pasticci di Obama in Medio Oriente. 

In ogni caso, l’impressione è che neanche Trump, ben più “realista” di Obama in politica estera, ordinerà operazioni per togliere di mezzo Assad con la forza. All’epoca, Obama esitò perché il “regime change” siriano avrebbe potuto innescare una reazione di Teheran contro Israele, mentre quello che interessava a Obama era solo chiudere l’accordo con gli ayatollah atomici iraniani. Oggi, Trump sembra più aperto a soluzioni condivise con Mosca ma senza sconti a Teheran. Va segnalata comunque la dura presa di posizione del nuovo ambasciatore americano alle Nazioni Unite, Nikky Haley, che ha definito Assad “un uomo privo di coscienza” e accusato Mosca e Teheran di non essere interessate alla pace. Intanto in Siria si continua a morire e non c’è nessuno, ormai neanche Putin, che a livello internazionale abbia uno straccio di ricetta utile a fermare questo massacro. Soprattutto non il premio Nobel per la pace Barack Obama.