La società dei “Gamer” spaventa lo spettatore ma non graffia
11 Aprile 2010
Futuro prossimo. In un 2034 non troppo irrealistico a calamitare l’attenzione dei telespettatori è un videogioco,“Slayer”, in cui si controlla fisicamente – tramite delle cellule impiantate nella corteccia cerebrale – un altro essere umano impegnato in una battaglia per la sopravvivenza. Questa, senza fronzoli, l’idea di partenza di “Gamer”, film uscito da pochi giorni nelle nostre sale.
In Slayer dei condannati a morte accettano di farsi controllare per 30 round, che si svolgono in un enorme e reale livello di un videogioco, da una persona che ne decide i movimenti. Alla fine dei combattimenti, se è ancora in vita, il detenuto è libero di tornare nella società. Naturalmente e prevedibilmente nessuno ci è mai riuscito, ma Kable (raffigurato da un iperproteinico Gerard Butler e controllato da un 17enne) è giunto a 29 vittorie e sta per ricongiungersi con moglie e figlia. Ken Kastle (impersonato da un istrionico Michael C. Hall), genio e ideatore di Slayer, vede in Kable una pubblicità grandiosa e al contempo una minaccia per il suo prodotto. La trama, anche se i registi tentano di complicarla inutilmente, è tutta qui, ma ci sono diversi spunti su cui riflettere.
Il prodotto di Neveldine e Taylor, pur non brillando per contenuti e innovazione, trova la sua ragione d’essere nell’incrocio (già ampiamente sfruttato dai b-movie d’oltreoceano) tra truculenta violenza e riflessione sociopolitica di scarsa profondità. In questo quadro si inserisce alla perfezione la trovata di presentare – parallelamente a Slayer – “Society”, un gioco con gli stessi principi del primo (ma in versione “vita reale” e non “battaglia per la sopravvivenza”), che richiama molto da vicino applicazioni sfruttate da milioni di utenti di questo mondo come “The Sims” e “Second life”.
L’intento è chiaramente quello di far nascere un dubbio nello spettatore, ovvero che la deriva di un mondo sempre più reality-oriented sia in verità molto più pericoloso di quanto non sembri. Gamer, dietro al necessario e piacevole impianto visivo spettacolare, immagina insomma l’ulteriore degenerazione dei reality in strumenti atti a controllare masse di spettatori sempre più passivi. E proprio il “realismo” guerrafondaio di Slayers, unitamente alla colorazione hippy di Society, testimonierebbe la volontà di dare un indirizzo a target da parte dei “programmatori” dei network. Non più quindi spettatori, ma sempre più consumatori, magari appiattiti su uno stereotipo tagliato apposta sulle loro esigenze.
E’ così che il genere umano si riduce a una marea di "comparse" (selezionate tra i colpevoli di reati minori e liberi in caso di sopravvivenza ad una sola puntata), buona da immolare sull’altare del profitto a tutti i costi.
La liberazione finale assume in quest’ottica un doppio significato. Da una parte il puro e semplice riscatto di un uomo che ottiene libertà e una nuova reputazione solamente attraverso le proprie mani, tornando di fatto ad un concetto di uomo faber piuttosto vetusto ma che catapulta il protagonista fuori dal gioco tanto quanto dal contesto sociale che ispira e permea il duello tv. Dall’altra la fuga della società, sempre più violenta ed estremizzata, verso i veri valori della vita: la famiglia, il controllo della propria esistenza e, perché no, l’autodeterminazione, elemento raro di questi tempi.
Tra il serio e il faceto va ricordato il meraviglioso numero musical-simbolico di Michael C. Hall, che richiama molto da vicino un Drugo di “meccanica” memoria mentre, danzando sulle note di "I’ve Got You Under My Skin", lancia i suoi scagnozzi contro Kable. A livello più sottile si può intuire come il ballerino improvvisato sia la metafora di una società jingleizzata, che compie ogni tipo di azione mascherandola sotto una patina dorata, salvo poi mostrarsi, pochi istanti dopo, in tutta la sua violenza.
In sintesi, un ottimo blockbuster da sala cinematografica, con annessa contraddizione. Criticare una società sempre più mercificata, colorata, anabolizzata e poi offrire uno spettacolo da baraccone pieno di luci, esplosioni e muscoli suona un po’ strano. Hollywood ci ha abituato a operazioni commerciali di tale foggia, ma la sensazione di amaro in bocca rimane ugualmente. Non si può far altro che uscire dal cinema – un po’ frastornati dal bailamme visivo – dimenticandosi tutto e ributtarsi nella vita reale, per fortuna ben lontana da quanto appena visto sullo schermo.