La soluzione migliore è rimandare di un anno il referendum

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La soluzione migliore è rimandare di un anno il referendum

17 Aprile 2009

Allora, l’accorpamento dei referendum elettorali con le elezioni europee non si farà. E’ stata una decisione giusta, politicamente o anche giuridicamente? Vediamo, adesso, il secondo aspetto, riservandomi di fare alcune osservazioni sui profili politici nel finale. La questione della (presunta) incostituzionalità del c.d. “election day” è stata sollevata, qualche giorno fa, dal ministro Calderoli in un’intervista a “La Stampa”. Gli argomenti avanzati da Calderoli sono certamente pertinenti e toccano nodi sensibili: a) non si è mai abbinato un referendum con delle elezioni, perché sono due consultazioni differenti nel modo e nel metodo: con il voto referendario, infatti, c’è la possibilità, costituzionalmente prevista, di astenersi e impedire così il raggiungimento del quorum di maggioranza; b) l’abbinamento referendum-elezioni costringerebbe quell’elettore che, nel seggio elettorale, volesse astenersi al solo voto referendario a far conoscere la sua volontà, violando così la segretezza del voto (tutelato all’art. 48 Cost.); c) la normativa che scaturirebbe dal referendum prefigurerebbe una legge elettorale fortemente asimmetrica, perché il partito che vincesse le elezioni poniamo con solo il 25% si ritroverebbe con il 55%, e quindi avrebbe garantita la maggioranza in parlamento.

L’ultima di queste obiezioni è senz’altro la più forte sul piano dell’assetto democratico, ma non è stata valutata incostituzionale dalla Corte nel giudizio di ammissibilità del referendum. Veniamo, allora, alle prime due obiezioni mosse da Calderoli. E’ vero che non si è mai abbinato un referendum con delle elezioni: addirittura nel 2000 si votò alle regionali il 16 aprile e un mese dopo ci furono le (sette) consultazioni referendarie. Il motivo è essenzialmente quello che sono due atti di voto differenti, e pertanto è bene che rimangano distinti. Con il voto referendario si possono esprimere tre opzioni di scelta: voto favorevole, voto contrario, astensione. Con l’astensione l’elettore concorre a non far scattare il quorum di maggioranza per la validità del voto referendario; ed è come se esprimesse una sua “mozione di sfiducia” nei confronti di quei 500mila elettori, che hanno raccolto le firme e voluto quel referendum. Con le elezioni, invece, si esercita un dovere civico, che è quello di concorrere alla determinazione delle scelte di indirizzo politico del Paese (a livello nazionale, locale o europeo). Quindi, accorpare referendum con elezioni è senz’altro inopportuno o impraticabile ma non illegittimo. La seconda obiezione mossa da Calderoli relativamente alla (violazione) della segretezza dell’astensione non convince, anche perché la non partecipazione al voto risulta in atti. E’ un problema di grado di visibilità dell’astensione: infatti, l’elettore che volesse votare per le europee (o amministrative) e non per il referendum deve non ritirare la scheda. Così come se ci fossero più referendum, un elettore potrebbe decidere di astenersi per alcuni (e quindi non ritirare la scheda) e per altri, invece, votare.

Allora: delle tre obiezioni del ministro Calderoli, che hanno messo a fuoco il problema e costretto a ragionarci sopra, quella che persuade di più è l’inopportunità di abbinare il referendum con le elezioni, perché sin tratta di due manifestazioni di voto diverse e quindi è altamente consigliabile che rimangano distinte. Ma se questo è vero, allora anche l’ipotesi, in questi giorni avanzata, di abbinare il referendum con i ballottaggi delle amministrative, e cioè il 21 giugno, non è altrettanto consigliabile. Per le ragioni di cui prima, alle quali se ne aggiunge anche una squisitamente giuridica, e cioè che occorrerebbe varare un decreto legge per fissare la data; e la materia elettorale, si sa, non dovrebbe essere oggetto di decretazione d’urgenza…

Rimangono due opzioni: o fare svolgere il referendum il 14 giugno, con la consapevolezza di spendere circa 200 milioni di euro in un momento certamente poco adatto per “sprecare” denaro; oppure – e potrebbe essere la soluzione – approvare una legge che rimandi di un anno il voto referendario. Un anno nel quale il parlamento ben potrà lavorare a una nuova legge elettorale, visto che lo “stimolo” o la “minaccia” referendaria rimane sempre lì a vigilare. D’altronde, lo scopo vero dei referendari non è quello di avere la legge così come verrebbe fuori dal voto, ma piuttosto di pungolare il legislatore a modificare il sistema elettorale ripulendolo da alcune storture, prima fra tutte la lista bloccata (che, peraltro, non verrebbe abolita col referendum).

La politica ha saputo interpretare bene l’andamento del sistema istituzionale, andando a rafforzare il bipolarismo attraverso la costituzione di due grandi partiti. E il recente congresso che ha dato vita al partito del popolo della libertà ne è un’ulteriore conferma e testimonianza. Quello del bipolarismo è un percorso avviato e sempre più radicato. Diamo un anno al legislatore per affermarlo con maggiore nettezza per il tramite di una nuova legge elettorale. Altrimenti, che referendum sia.