La soluzione per l’Italia: tagli alla spesa pubblica del 3% e crescita al 2%

Banner Occidentale
Banner Occidentale
Dona oggi

Fai una donazione!

Gli articoli dell’Occidentale sono liberi perché vogliamo che li leggano tante persone. Ma scriverli, verificarli e pubblicarli ha un costo. Se hai a cuore un’informazione approfondita e accurata puoi darci una mano facendo una libera donazione da sostenitore online. Più saranno le donazioni verso l’Occidentale, più reportage e commenti potremo pubblicare.

La soluzione per l’Italia: tagli alla spesa pubblica del 3% e crescita al 2%

La soluzione per l’Italia: tagli alla spesa pubblica del 3% e crescita al 2%

02 Dicembre 2011

L’euro potrebbe presto collassare benché non esista ragione perché ciò debba accadere. Tutto a questo punto dipende dall’Italia, considerato che i mercati finanziari temono che essa sia insolvente. Se l’Italia dovesse continuare a pagare dei rendimenti sui propri titoli di Stato al 7%, il debito totale del paese crescerebbe ad un livello superiore rispetto alla sua capacità di risarcire il debito.

Se gli investitori si persuadessero che questo stato di cose è destinato a durare, smetteranno di prestare denaro all’Italia. A quel punto l’Italia sarà costretta a lasciare l’euro. La ‘nuova lira’ che ne discenderebbe ridurrebbe il prezzo delle esportazioni italiane. La pressione competitiva spingerebbe anche la Francia a lasciare l’euro, portando l’unione monetaria alla sua fine.

Però non è necessario che ciò accada. L’Italia può contemporaneamente salvare la propria sovranità economica e con essa l’euro, se agirà con forza nel convincere i mercati che porterà a pareggio il proprio bilancio e farà di tutto per aumentare il proprio tasso di crescita, riducendo la percentuale del proprio debito rispetto al proprio prodotto in modo sostenuto e prevedibile. Se i mercati si fidassero di questo corso, il tasso di rendimento dei titoli dell’Italia ricadrebbe al livello del 4% del pre-crisi.

L’Italia ha tutte le carte per farcela. Con un surplus d’avanzo primario (che è il gettito fiscale eccedente la spesa corrente al netto della spesa totale in interessi), il governo italiano è nella misura di abbattere il proprio deficit di bilancio se riuscirà ad applicare tagli per solo il 3% del Pil, in un bilancio pubblico che è pari a metà del proprio Pil.

Se riuscirà a mettere in campo delle riforme tali da far crescere il paese al 2% annuo, il debito dell’Italia potrebbe cadere del 65% del Pil in 15 anni – non diversamente da ciò che accadde negli Stati Uniti quando con pareggi di bilancio, 2,3% di crescita e il 3,3% di inflazione il debito degli Stati Uniti scese dal 109% nel 1946 al 46% nel 1960.

L’Italia è completamente diversa dalla Grecia, che ha un deficit del 9%, un Pil reale in caduta del 7%, e un deficit delle partite correnti del 10%. La Grecia starebbe molto meglio se abbandonasse l’euro, svalutasse la sua nuova moneta, e facesse default sul suo debito.

Una decisione di questo genere genererebbe una fuga dall’euro e dal debito italiano. E’ per questo che l’Italia deve sottolineare la propria diversità dalla Grecia, chiarendo che le future politiche genereranno una riduzione del deficit e una abbassamento del rapporto tra debito e Pil.

L’Italia può farcela da sola. Non ha bisogno di Francoforte, Bruxelles, o Washington. Le politiche d’aiuto proposte dalla Banca Centrale Europea, la Commissione, il Fondo Monetario Internazionale indebolirebbero l’Italia e minerebbero la sua indipendenza economica. Questi attori sono mossi da politica, non da necessità economiche.

Da giorni circolano indiscrezioni autorevoli sul fatto che molti, tra cui il governo della Francia, vorrebbero che la Bce comprasse i titoli dell’Italia e di altri paesi per spingere giù i loro tassi di rendimento. In cambio la Bce o la Commissione acquisirebbero il potere di porre il veto sulle decisioni nazionali in materia di bilancio.

L’Italia, come la Grecia oggi, diventerebbe dei vassalli della Germania. Ciò non solo violerebbe le regole “anti-salvataggio” del trattato di Maastricht, ma metterebbe la Germania stessa a rischio default, di fronte alla possibilità di un aumento dell’inflazione, oltre a eliminare qualsiasi segnale al mercato sulle buone intenzioni dei governi per un contenimento dei rispettivi deficit di bilancio.

Dopo il fallimento nell’espansione dello European Financial Stability Facility da 400 miliardi di euro a i trilioni di cui c’è bisogno per sostenere l’Italia e la Spagna, la Commissione ha proposto un’alternativa: permettere a ogni paese dell’eurozona di emettere degli eurobond garantiti da tutti i 17 membri. Si tratta di una soluzione che funzionerebbe soltanto se fossero sotto controllo della Commissione, dominata dalla Germania come prima garanzia.

L’FMI da parte sua ha proposto invece la creazione di un fondo che presti ai paesi membri. Il finanziamento di questo fondo avverrebbe con prestiti emessi dalla Bce e aggirerebbe abilmente le regole anti-salvataggio del trattato di Maastricht e il divieto d’acquisto di nuovi titoli di debito sovrano per la Bce. Di nuovo, una qualche forma di coordinamento tra FMI e Commissione europea finirebbe per affidare a questi organismi il controllo dei bilanci delle nazioni che accedessero ai prestiti.

Formalmente nessuno di questi programmi negherebbe ai governi l’abilità d’impostare il proprio sistema fiscale e le politiche di spesa pubblica. D’altronde che bisogno vi sarebbe:  i limiti sull’irresponsabilità fiscale potrebbero evolvere in limiti d’altro genere. La bassa tassazione sulle imprese dell’Irlanda, per esempio, sarebbe un bersaglio quasi ovvio per i suoi concorrenti.

I tumulti e le sollevazioni politiche che vediamo in Grecia dovrebbero suggerire ciò che rischia d’accadere anche altrove se la burocrazia di Bruxelles e la Cancelliere tedesca finissero per dominare le politiche economiche nazionali.

Fortunatamente, niente di tutto ciò è necessario se l’Italia agirà con risolutezza per creare condizioni di bilancio e di crescita tali che gettino le basi per un cambiamento sostanziale sullo stock del proprio debito. Il rischio è che l’impazienza e lo scetticismo dei mercati finanziari possano creare una crisi finanziaria ancora più profonda prima che l’Italia abbia il tempo di tentare questa via.

*Martin Feldstein è professore alla Harvard University ed è stato chief economic adviser del presidente Ronald Reagan

Tratto dal Financial Times