La Somalia ha un nuovo presidente, islamico e (apparentemente) moderato
04 Febbraio 2009
di Anna Bono
Dal 31 gennaio Sheik Sharif Sheik Ahmed è il nuovo presidente della Somalia: è stato eletto appena in tempo per partecipare al XII vertice dell’Unione Africana, svoltosi in questi giorni ad Addis Abeba, Etiopia, dove è stato accolto e festeggiato dai capi di stato e di governo di tutto il continente. Sheik Ahmed, che sostituisce Abdallahi Yussuf, uscito sconfitto da un lungo braccio di ferro con il primo ministro Nur Hassan Hussein e perciò costretto a dimettersi alla fine di dicembre, è stato un leader dell’Unione delle Corti Islamiche, la coalizione antigovernativa legata al terrorismo islamico internazionale che nel 2006 aveva conquistato gran parte della Somalia, inclusa la capitale Mogadiscio.
Sheik Ahmed ne rappresentava l’ala cosiddetta moderata confluita poi nell’Ars, l’Alleanza per la ri-liberazione della Somalia, formatasi dopo la sconfitta militare delle Corti Islamiche ad opera dei soldati inviati alla fine del 2006 dall’Etiopia in difesa del governo somalo di transizione in procinto di soccombere. Negli ultimi mesi del 2008, mentre le milizie antigovernative, malgrado la presenza del contingente etiope e della Amisom, la missione di pace in Somalia dell’Unione Africana, si riappropriavano di una città dopo l’altra, l’Ars aveva accettato di sottoscrivere con il governo una tregua, ponendo come condizione il ritiro delle truppe etiopi e la partecipazione a un governo di unità nazionale. Così è stato. I militari di Addis Abeba hanno lasciato il paese pochi giorni or sono e Sheik Ahmed è stato in effetti eletto da un parlamento già portato da 275 a 550 seggi per far spazio all’Ars.
L’Unione Africana, le Nazioni Unite e l’Igad, l’Autorità intergovernativa per lo sviluppo (costituita dai sei stati del Corno d’Africa) si sono subito congratulate con le autorità somale per la svolta impressa alla crisi che da 18 anni attanaglia il paese, con conseguenze drammatiche per i suoi abitanti. Ma nessuno in realtà si illude che la soluzione dei problemi somali sia a portata di mano. La parte delle Corti Islamiche che ha continuato a combattere, riorganizzandosi in gruppi armati ora chiamati shabaab, controlla ormai vaste estensioni della Somalia meridionale, compresi i porti di Merka e Kismayo. Partiti gli etiopi, si è impadronita persino di Baidoa, la sede delle istituzioni politiche: per questo il parlamento è riunito temporaneamente a Gibuti, fuori dai confini nazionali, e sembra di essere tornati al 2004, quando parlamento e governo erano ospitati a Nairobi, Kenya, mancando le condizioni di sicurezza per il loro rientro in patria.
È da escludere che le forze somale da sole siano in grado di imporre sul territorio nazionale un controllo che finora non hanno mai avuto. Né ci riuscirà la Amisom, anche se agli attuali 3.400 militari ugandesi e burundesi si aggiungeranno entro fine mese gli 850 soldati promessi dalla Nigeria. Il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ne estenderà comunque il mandato fino a giugno e nel frattempo deciderà se rafforzare la missione inviando dei caschi blu come già è stato fatto nel 2007 in Sudan, per il Darfur, visti i deludenti risultati della missione africana Amis. Va da sé che il processo democratico previsto dagli accordi di pace del 2004 è destinato a subire rallentamenti e modifiche.
Uno dei primi provvedimenti del parlamento allargato è stato il rinvio di due anni delle elezioni politiche previste per quest’anno ad agosto. D’altra parte era impensabile che entro quella data si dessero le condizioni necessarie per permettere alla popolazione di andare alle urne: prima fra tutte la realizzazione di un censimento che consenta di compilare le liste degli aventi diritto al voto, per non parlare del disarmo dei combattenti e del ritorno a casa di centinaia di migliaia di profughi e di sfollati.
Ma, soprattutto, induce ad estrema cautela l’esperienza di tanti anni invano spesi dalla comunità internazionale per indurre i capi clan somali a unirsi per il bene comune. Le attuali istituzioni infatti sono già il risultato di un progetto di “unità nazionale” che risale a cinque anni or sono e che, nel distribuire le cariche, aveva tenuto conto dei rapporti di forza tra clan e lignaggi: i quali però, d’accordo sulla carta, non hanno mai smesso di lottare a oltranza, apparentemente incapaci di coalizzarsi stabilmente dopo la breve alleanza stabilita nel 1991 per mettere in fuga il dittatore Siad Barre.