La Somalia tra caos e disperazione

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La Somalia tra caos e disperazione

23 Maggio 2007

E’ ben noto che in Somalia si svolge uno dei conflitti più violenti del nostro tempo, ma la sua vera dimensione viene ancora sottovalutata. La situazione è talmente grave che secondo le Nazioni Unite lavorare in Somalia per le organizzazioni umanitarie è divenuto più difficile che in Sudan. L’ONU ha anche messo in rilievo che nel conflitto attualmente in corso tutte le parti si sono macchiate di violazioni di diritti umani.

E’ ormai dal 1991 che la Somalia si trova in guerra civile. Al golpe che ha provocato la caduta del dittatore Muhammad Siad Barre è seguita una lunga fase di conflitto tra i numerosi signori della guerra. Nel 1992, i marines americani giungono in Somalia nell’ambito di una missione umanitaria delle Nazioni Unite, ma le perdite subite nelle imboscate dei guerriglieri spingono Clinton a ritirare il contingente nel marzo 1994, mentre la forza di pace Onu decide di fare le valige nel 1995. Seguono anni di caos con vari tentativi di formare nuovi governi. Tuttavia, si tratta di governi in esilio che non godono del favore popolare e sono sostanzialmente privi di sovranità. Nel 2004 durante il quattordicesimo tentativo di formare un governo nazionale, l’attuale presidente, Abdullahi Yusuf, viene eletto da un parlamento provvisorio riunito in Kenia. Solo nel febbraio 2006 il parlamento provvisorio riesce a riunirsi per la prima volta in Somalia, ma l’evento non favorisce il miglioramento della situazione perché da quel momento in poi si susseguono scontri ancora più gravi. Nel luglio 2006, le milizie affiliate alle Corti islamiche prendono il controllo della capitale Mogadiscio. A questo punto, gli Stati Uniti cominciano a intensificare gli sforzi per cercare di influenzare l’esito del conflitto. Gli Usa accusano le Corti islamiche di avere nelle proprie file elementi terroristici e si oppongono all’instaurazione di un governo islamista a Mogadiscio. E’ difficile giudicare i legami tra le Corti islamiche e Al Qaeda. Alcuni osservatori ritengono che il timore degli americani sia esagerato ma la questione è avvolta nel mistero.

Il governo etiopico interviene nel dicembre 2006 in Somalia e respinge le Corti islamiche, costringendole a lasciare la capitale. In molti hanno criticato gli Stati Uniti per l’appoggio offerto all’intervento etiopico, ma Ken Menkhaus, analista di politica africana al Davidson College della North Carolina, ricorda che gli Stati Uniti hanno a lungo dissuaso l’Etiopia dall’intervenire e che solo dopo l’ascesa dei jihadisti Washington avrebbe deciso di appoggiare l’intervento etiopico. Gli stessi americani hanno effettuato dei raid aerei in gennaio per colpire gruppi associati ad Al Qaeda. L’intervento etiopico consente al presidente Yusuf di recarsi a Mogadiscio per la prima volta. Ma la vittoria non è completa e nel marzo-aprile 2007 scoppia un altro scontro tra le truppe etiopiche e le milizie locali, considerato dalla Croce Rossa il più violento dal 1991. Nessuno è in grado di contare i morti anche se l’ONU stima che in poche settimane 340,000 abitanti siano fuggiti da Mogadiscio.

Un altro fatto, poi, complica la situazione. L’Etiopia e il governo di Yusuf non vengono osteggiati solamente dalle milizie islamiche, ma anche da diverse tribù del paese. Queste non si fidano del presidente e si ribellano contro la presenza dei soldati etiopici. Nelle ultime tre settimane un po’ di calma è tornata a Mogadiscio, tuttavia è ancora difficile individuare un percorso concreto che conduca il paese alla pace. In teoria, 8,000 soldati dell’Unione Africana (UA) dovrebbero sostituire quelli etiopi, ma finora solo l’Uganda ha accettato di contribuire, schierando 1,800 uomini, un numero sicuramente insufficiente a portare ordine nel paese. Il governo etiopico ha annunciato l’intenzione di procedere a un ritiro parziale delle sue truppe, ma non c’è nessun altro paese in grado di riempire questo vuoto, soprattutto perché gli altri stati africani temono un eccessivo coinvolgimento nella violenza somala. Da questo punto di vista, sembra alquanto ingenuo da parte del vice-ministro degli Esteri italiano, Patrizia Sentinelli, richiedere il ritiro immediato delle truppe etiopiche. Il Burundi e la Nigeria hanno promesso l’invio di truppe in futuro, ma a questa dichiarazione d’intenti non hanno ancora fatto seguire azioni concrete. Secondo Ioan Lewis, esperto di Somalia presso l’Università di Londra, gli altri stati africani fanno bene a non partecipare alla forza dell’Unione Africana perché non sarebbero in grado di portare a termine la missione e sarebbero malvisti dalla popolazione locale. Che per l’AU si tratti di una missione pericolosa è confermato dall’assassinio di quattro soldati ugandesi il 16 maggio. Il professor Lewis mette anche in risalto che Yusuf è l’uomo sbagliato per governare il paese. Il suo potere non si basa sul consenso popolare, quanto piuttosto sulla garanzia del governo etiope. Inoltre, Lewis ritiene che sia inappropriato e fuorviante riferirsi alla Somalia come uno stato vero e proprio. Oltre al fatto che nella capitale non vi è traccia delle istituzioni tipiche di uno stato, appunto, il nord del paese, il Somaliland, si trova in una condizione d’indipendenza di fatto nonostante il mancato riconoscimento da parte della comunità internazionale.

L’Etiopia aveva probabilmente immaginato un intervento più facile e un’occupazione più breve. Il presidente etiopico Meles Zenawi ha recentemente ammesso, in un’intervista alla Reuters, che l’occupazione continuata pesa gravemente sul budget del suo paese. Ancora una volta, vincere la guerra si è dimostrato più semplice che vincere la pace. La superiorità militare etiopica e, allo stesso tempo, la sua incapacità di stabilizzare la situazione, ha spinto il giornalista americano del Washington Post, David Ignatius, a chiamare la Somalia “l’Iraq dell’Etiopia”, in analogia con le difficoltà incontrate dagli Stati Uniti in Iraq dopo la caduta del regime di Saddam Hussein.