La sorte del governo iracheno divide i democratici Usa
23 Agosto 2007
Durante la giornata di lunedì è esplosa un’altra mina nel sud dell’Iraq e questa volta le vittime non sono stati dei civili inermi intenti a fare la spesa in un mercato rionale. Com’era già successo non più di dieci giorni fa, il bersaglio della bomba era un governatore. Mohammed Ali al-Hassani stava dirigendosi verso la città di Samawha, scortato dal suo convoglio composto di nove vetture, quando è esplosa una mina che oltre a lui, ha ucciso anche una delle sue guardie del corpo.
Così come il suo collega, Khalil Jamil Hamza, governatore della provincia di Qadisiyah, ucciso l’undici agosto da un’altra bomba, al-Hassani era un membro del Consiglio Islamico Supremo dell’Iraq, precedentemente conosciuto come SCIRI, che si prefigge di perseguire la fondazione di uno stato islamico iracheno, sul modello di quello iraniano di Khomeini. Infatti il SIIC era guidato, prima del suo assassinio, avvenuto nel 2003, dall’Ayatollah Mohammed Baqir al-Hakim mentre ora a capo dello stesso partito c’è suo fratello Abdul Azizi al-Hakim.
Questi assassinii sono la conseguenza di una lotta politica intestina agli sciiti nel sud iracheno, laddove c’è una presenza minima sia di truppe Usa che di sunniti. Il SIIC si contrappone infatti all’esercito del Madhi, la milizia sciita per eccellenza in Iraq. C’è da notare anche che il controllo della provincia di Muthanna è passato dall’esercito britannico a quello iracheno lo scorso anno, e questo passaggio di consegne non sembra essere stato positivo.
Quindi, la problematica situazione irachena dipende in larga parte dalle divisioni settarie, siano esse di tipo etnico o religioso. Almeno questo è ciò che si apprende leggendo i più importanti quotidiani sia stranieri che nostrani.
Queste divisioni sono inasprite dalla lotta per il potere, che si traduce a sua volta in una guerra per accaparrarsi le più importanti posizioni di comando all’interno del paese. Non a caso c’è chi auspica una divisione dell’Iraq sul modello svizzero dei cantoni, in questo modo tutti e tre i principali gruppi etnico-religiosi del paese avrebbero la possibilità di regnare nei loro rispettivi governi regionali. A questo punto però entra in gioco una questione di non poco conto: guarda caso sono i curdi a spingere per questo tipo di soluzione, infatti il territorio dell’Iraq del nord è quello maggiormente ricco di petrolio.
Nel frattempo il dibattito politico in America si sviluppa proprio sulla falsariga delle problematiche irachene e, come di consueto, le posizioni dell’uno e dell’altro schieramento si fanno meno nette; Mentre il senatore Carl Levin, Democratico del Michigan, chiede di destituire il Premier iracheno Nouri al-Maliki, qualche altro democratico come, Brian Baird di Washington membro del Congresso, ha ammesso che non voterebbe un disegno di legge sul ritiro delle truppe dallo scenario iracheno e lo ha fatto di ritorno da un viaggio in Iraq durato qualche giorno.
“Spero che il parlamento [iracheno, ndr] voti per la destituzione del governo di al-Maliki e sia dotato della saggezza necessaria per rimpiazzarlo con un primo ministro ed un governo meno settari e meglio in grado di unificare il paese” ha detto Levin dopo essere stato in Giordania e in Iraq per tre giorni, con questa frase il democratico della “regione dei laghi” si è reso autore del più accorato appello per un cambio al vertice in seno al governo iracheno.
Ma lo sciita Maliki sta provando in tutti i modi a raggiungere una riconciliazione tra i curdi, i sunniti e gli sciiti che avrebbe del miracoloso. Tutti sanno che la contrapposizione settaria in Iraq è figlia di una situazione vecchia di almeno cent’anni che è stata tra l’altro inasprita dalla dittatura di Saddam Hussein.
Insomma, invocare la mancata soluzione del problema etnico-religioso in Iraq è un modo neanche tanto elegante per colpire il Presidente Bush, e con lui tutti i repubblicani. D’altronde ci troviamo in una fase politica pre-elettorale e giocare a fare i pacifisti rappresenta il modo migliore per guadagnare valanghe di voti. Ora però, chi volendo colpire indirettamente Bush spara a zero su Maliki è stato spiazzato dalle recenti dichiarazioni dello stesso Presidente Usa il quale ha ammesso per la prima volta di provare “un certo livello di frustrazione” per come l’attuale esecutivo iracheno sta affrontando il problema della divisione settaria. Il commento proveniva dal meeting dei leader nordamericani svoltosi in Canada questo martedì. Insomma, ora la spiegazione da parte repubblicana (Bush compreso) delle difficoltà politiche irachene sembra voler essere del tipo, “noi stiamo facendo del nostro meglio in Iraq, non è colpa nostra se il governo attuale non è in grado di risolvere le problematiche legate alla divisione settaria”, così come sottolineato da Sheryl Gay Stolberg e Jim Rutenberg del New York Times
Perfino lo stesso ambasciatore Usa a Baghdad, Ryan Crocker, aveva definito il progresso politico in Iraq come “estremamente deludente”, poco prima del commento del suo presidente. Quindi, anche se all’interno dello stesso discorso di martedì Bush aveva chiesto pazienza ai suoi elettori visto che gli iracheni hanno subito per anni “una società tirannica in cui il tiranno ha brutalizzato il suo stesso popolo e creato una profonda diffidenza”, e considerato pure che alcuni hanno letto le parole del presidente come rivolte più che altro all’interno del dibattito politico americano, al-Maliki farebbe comunque bene a guardarsi le spalle, perché se anche il supporto di Bush viene meno, la sua coalizione potrebbe non avere una vita molto lunga. L’unica speranza per il Premier iracheno è infatti la mancanza di alternative valide al suo ruolo. Ma questo lascia intatti tutti i problemi
La divisione interna alle varie fazioni irachene, infatti, scaturisce da due aspetti fondamentali: la legge per la divisione degli introiti ricavati dalla vendita del petrolio e la questione se sia giusto o meno permettere ad alcuni ex-membri del partito Baath (quello di Saddam) di accedere a ruoli governativi. Due problemi di non poco conto. Il ricavato della vendita del petrolio più infatti cambiare radicalmente, e in meglio, i conti di una regione. Mentre per quanto concerne la seconda, basta pensare a quanto è stata importante in un paese come il nostro, quando si dovette decidere in merito al destino degli ex-aderenti al Partito Nazionale Fascista, subito dopo la seconda guerra mondiale. D’accordo, questi uomini avevano fatto parte di una dittatura ma non è che si potevano mandare tutti in esilio o lasciarli morire in prigione.
Infine, per dare un’idea di quanto possa essere importante l’influenza di un gruppo etnico in una regione irachena, basti pensare alla provincia di al-Anbar, per quasi quattro anni uno dei posti più pericolosi in Iraq, che è ora diventato un luogo relativamente tranquillo grazie all’alleanza dell’esercito Usa con gli sceicchi sunniti.
Quello che conta, comunque, è che il Partito Democratico americano si sta dividendo sempre di più al suo interno, così come riporta Jonathan Weisman del Washington Post. Lo scorso venerdì, ad esempio Baird ha rivelato all’Olympian che non crede più in un ritiro delle truppe dall’Iraq. Ma anche il democratico membro del Congresso Tim Mahoney (Florida) ha recentemente dichiarato ad un giornale locale che l’incremento di truppe (voluto da Petraeus) “Ha realmente fatto la differenza mettendo in fuga al-Qaeda”. Dichiarazioni che sono state poi supportate anche da un altro democratico, il senatore dell’Illinois Richard Durbin, che ha dichiarato a sua volta “stiamo facendo progressi” riferendosi alla situazione irachena.
In generale, poi, sull’auspicato cambio di governo in Iraq la risposta più efficace l’ha data un Democratico, lo stesso Durbin ha infatti fatto venire un malanno ai suoi colleghi Democrats quando ha dichiarato: “Immaginate di dover insediare un nuovo leader ed un governo nuovo di zecca…quanti altri mesi dovremmo aspettare?”. Durbin si riferiva ovviamente al processo di riconciliazione nazionale concetto che, dalle parti di Washington, sembra ormai essere diventato una filastrocca da film horror per entrambi gli schieramenti politici.