La “sottile” differenza tra reddito da lavoro finanziario e rendite

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La “sottile” differenza tra reddito da lavoro finanziario e rendite

07 Settembre 2007

I redditi da investimento finanziario, plusvalenze, dividendi e interessi, sono redditi da lavoro, e non rendite. Il termine “rendita” nelle scienze economiche ha tutt’altro significato, definisce il guadagno che deriva dalla proprietà della terra. Oggi tale termine viene usato volutamente in modo errato e ipocrita per suggerire l’idea che i percettori di redditi finanziari, i risparmiatori, siano dei ricchi parassiti immersi nell’ozio, che vivono, appunto, “di rendita”, e non producono nulla. La realtà è ben diversa. Chi oggi non dedica tempo, lavoro, energie e soldi nella personale ricerca del miglior investimento finanziario, e investe a caso, sicuramente non sta guadagnando niente, anzi sta rimettendoci. Chi si affida alla gestione altrui non arricchisce, ma fa arricchire il gestore. Se oggi si vuole tirare fuori dagli investimenti finanziari qualche euro, occorre divenire dei trader a livello semiprofessionale, o almeno provarci; ed è questo che hanno fatto decine di migliaia di risparmiatori. Il lavoro di investimento finanziario è un lavoro durissimo, senza orari né ferie, ad altissimo rischio (soprattutto in Italia, dove sono carenti o inesistenti delle reali protezioni per i risparmiatori), lavoro che richiede una preparazione e un impegno enormi, continui, impensabili.

Perché allora si continua ad usare l’errato termine “rendite”, dipingendo i risparmiatori come ricchi oziosi, come parassiti da tartassare? Le risposte sono ben note ed estremamente semplici. In Italia troppa gente vuol vivere sulle spalle degli altri, in modo lecito o illecito, pretendendo il ricorso alla tassazione o al pizzo. La socializzazione dei costi del consenso, ovvero di quel clientelismo, anche e soprattutto partitico, utile a mantenere al potere quelle famiglie che al potere sono sempre state, richiede che quote crescenti di reddito vadano estorte ai non protetti. La grande impresa assistita, padrona dello stato, impone agevolazioni e sovvenzioni a vantaggio delle proprie tasche. Su di chi tutti questi settori improduttivi vogliono ora scaricare i conseguenti aumenti di tasse, necessari alla loro sopravvivenza parassitaria? Sui risparmiatori, ovvero su tutti gli altri cittadini, visto che qualsiasi Italiano ha qualche euro da parte. I risparmi altrui, piccoli o grandi che siano, fanno gola ai settori improduttivi e clientelari, così come al ladro sul tram fa gola il portafoglio che sporge dalla tasca del passeggero.

Esaminiamo innanzitutto sinteticamente quali sono i redditi da investimento finanziario:

Dividendi: parte degli utili di una società distribuita agli azionisti. Il risparmiatore che investe acquistando azioni di una società diviene comproprietario pro quota di quella società.

Plusvalenze o  Capital gains: differenza tra il prezzo di acquisto e quello di vendita di uno strumento finanziario, azione, obbligazione, future, ecc.. Il risparmiatore, con un difficile lavoro di trading, cerca di guadagnare sulla differenza di prezzo, rischiando però molto seriamente di perdere.

Interessi: remunerazione del capitale prestato. Il risparmiatore, investendo in (cioè comprando) obbligazioni (bond) emesse o da stati (BTP, BOT, Bund…) o da società private (corporate), presta loro soldi, rischiando di non riaverli indietro (bond Cirio, bond argentini), e in cambio riceve un interesse. Non rendono più quasi nulla, invece, depositi e conti correnti, anzi questi ultimi spesso generano costi netti per il correntista.

 

In tutti e tre i tipi di redditi finanziari, vi è un reddito – guadagno reale solo se a fine anno l’accrescimento monetario dei soldi del risparmiatore è superiore alla perdita di valore, di potere d’acquisto dei soldi stessi, cioè se è superiore all’inflazione effettiva; altrimenti c’è una perdita reale (o rendimento reale negativo). In questi ultimi anni i guadagni monetari sono stati e sono tuttora mediamente inferiori all’inflazione effettiva, quindi i risparmiatori stanno perdendo soldi; questo ha generato la corsa all’acquisto degli immobili, con conseguente bolla speculativa immobiliare. In sintesi, il vero reddito, ipoteticamente da tassare, sarebbe quello che rimane dopo aver sottratto l’inflazione: invece oggi l’imposta colpisce tutto il reddito, anche quella parte annullata dalla perdita del potere d’acquisto dei risparmi. E ora si vuole aumentare questa imposta, che già fa pagare tasse ai risparmiatori anche sulla perdita di valore dei risparmi causata dall’inflazione.

La tassazione dei redditi da lavoro di investimento finanziario è iniqua, ottusa e controproducente per lo sviluppo del paese perché:

1. il risparmio è denaro, moneta, e come tale è soggetto ad inflazione, cioè a perdita di potere di acquisto, ovvero a perdita di valore. Questa perdita di valore va a favore dello stato, uno stato debitore in quanto è lui che emette tale moneta. Quindi l’inflazione è una tassa, come ben sanno anche i sedicenni che studiano ragioneria. L’inflazione è il più pesante, micidiale e subdolo tributo di cui già si avvantaggia lo stato. Tutti sperimentiamo quotidianamente che in Italia c’è un’inflazione ben superiore a quella ufficialmente dichiarata dall’ISTAT: questa inflazione reale è il tributo che i risparmiatori già pagano al fisco, cui si aggiunge l’attuale imposta sostitutiva del 12,5% che ora si vorrebbe assurdamente aumentare;

2. i possessori di grandi patrimoni mobiliari (tra cui vari esponenti della grande industria assistita che ricorrentemente pretendono a gran voce di tartassare i risparmi) non verranno minimamente scalfiti da tale aumento della tassazione sui redditi finanziari, in quanto costoro o hanno già la residenza fiscale all’estero, o hanno messo in atto escamotage di fiscalità internazionale, quali i trust offshore, per cui già oggi non pagano all’Italia un centesimo di tasse su tali grandi capitali mobiliari, né l’Italia può e potrà fare nulla contro di loro; l’aumento della tassazione sui redditi finanziari mira a colpire quindi solo i piccoli e medi risparmiatori; 

3. i risparmiatori sono stati i soggetti più svantaggiati nella redistribuzione del reddito degli ultimi anni, tra rendimenti reali negativi, crollo della new economy, crack di società quotate (Parmalat, Cirio, Ferruzzi…); nel contempo i prezzi degli immobili, anche delle più scassate bicocche, sono saliti alle stelle gonfiati dai tassi ai minimi del secolo;

4. decine di migliaia di risparmiatori nei decenni scorsi hanno ripopolato Svizzera, Montecarlo e Austria, fuggendo dall’Italia, portando via i loro sudati soldi anche quando il farlo costituiva reato, pur di difenderli e salvarli; far fuggire anche gli ultimi rimasti sicuramente non aiuta l’Italia a risalire la china dello sviluppo economico. Se verrà elevata l’aliquota sui redditi finanziari l’Italia avrà perso per tali risparmiatori l’ultima debole attrattiva che le era rimasta. Di paradisi fiscali sparsi per il mondo (o neanche troppo lontani) che li aspettano a braccia aperte, e già pieni di Italiani, ne trovano quanti ne vogliono. E gli anni ’60 e ’70 hanno ampiamente dimostrato che i capitali in fuga non possono essere fermati;

5. la diminuzione dei redditi da risparmio, annientati dalla tenaglia bassi rendimenti – aumento della tassazione, ha devastanti effetti depressivi su economia e consumi, innestando una spirale di stagnazione che può durare decenni, come è successo in Giappone;

6.  la fuga dagli investimenti finanziari spingerebbe la gente ad investire ancora di più in immobili, e quindi causerebbe un ingigantirsi della bolla speculativa immobiliare, con prezzi degli immobili già ora insostenibili;

7.  a livello di Scienza delle finanze, il beneficio per l’erario derivante dall’aumento della tassazione sui redditi finanziari è miserabile, irrisorio, con più svantaggi che vantaggi, mentre ne è ben chiara la creduta valenza politico-demagogica, oltretutto nettamente obsoleta in relazione all’attuale composizione del patrimonio della maggioranza degli Italiani: è finita l’epoca del “tassiamo i ricchi” per farsi demagogicamente amici i peones: gli Italiani sono tutti relativamente ricchi, almeno quanto a patrimoni e investimenti finanziari (tutti gli Italiani hanno qualche risparmio); 

8. chi ha risparmi da investire in strumenti finanziari, ha tali risparmi perché ha messo da parte una quota dei suoi redditi: redditi già tassati dall’imposta sul reddito nei periodi fiscali in cui sono stati percepiti; i risparmi sono quindi reddito già tassato; 

9. i dividendi, in quanto utili societari, sono già tassati in capo alla società, la quale li distribuisce al netto dell’imposta societaria ai risparmiatori-azionisti, i quali poi, nuovamente, pagano l’imposta sostitutiva su di essi;  i dividendi sono quindi già doppiamente tassati; 

10. le plusvalenze e gli interessi sono guadagni per chi li percepisce, ma perdite per chi li paga: il saldo finale per l’intera economia è zero, non vi è valore aggiunto assoggettabile equamente a tassazione, né motivi equi per cui il fisco si intrometta tra chi perde e chi guadagna; 

11. se certi industriali italiani (e occidentali in generale) non sono buoni a fare profitti non è per il carico fiscale che subiscono, di fatto bassissimo: l’aliquota sul reddito d’impresa è fittizia, visto che si applica non su tutto il reddito, ma solo sul reddito imponibile, e qualsiasi commercialista è in grado di decimare l’imponibile del reddito d’impresa. Tutta una serie di deduzioni e detrazioni sono previste per tutti gli altri tipi di reddito, a cominciare dal reddito da lavoro dipendente. Le aliquote sui redditi finanziari, invece, si applicano senza sconti su tutto il reddito, fino all’ultimo centesimo, non essendovi alcuna possibilità di dedurre costi e spese dall’imponibile. Si applicano anche sulle perdite da inflazione. Quindi il paragonare l’aliquota nominalmente pi%C3