La storia dei diecimila soldati italiani prigionieri in India (1a parte)
30 Gennaio 2010
Da Tobruk a Yol. Ai nostri giorni chi sente parlare di prigionia di guerra automaticamente corre col pensiero a Guantanamo, ad Abu Ghraib e ai maltrattamenti nei confronti dei detenuti, o agli ostaggi dei terroristi islamisti, o ancora alle immagini crudeli di gente rinchiusa nei campi di detenzione nella ex Iugoslavia ormai tre lustri or sono. Immagini che parlano di condizioni di vita disumane e di stermini di massa.
Sembra che la società umana moderna, nella sua schizofrenia, da una parte compia notevoli sforzi per regolamentare con leggi internazionali e convenzioni la prigionia ispirandosi a criteri di civiltà, e dall’altro non sia capace di far rispettare le stesse leggi, ricadendo sempre nella barbarie.
Non è che i nostri padri e nonni siano stati più “civili” di noi, tutt’altro. Né è una prova la seconda guerra mondiale, che ci ha tramandato episodi come quelli dei lager e dei gulag, dei campi di sterminio e delle camere a gas, delle fosse di Katin e delle foibe, insomma dell’eliminazione fisica del nemico prigioniero in spregio ad ogni convenzione internazionale. Eppure quel conflitto ci ha riservato anche qualche sprazzo di umanità e di comportamento leale, come la resa degli onori delle armi al valoroso nemico sconfitto o come l’applicazione di codici comportamentali cavallereschi di cui oggi, purtroppo, si sta perdendo la memoria.
Un esempio di prigionia “a misura d’uomo” ci viene proprio dalla lontana India, dove fra il 1941 e il 1947 i britannici detenevano un numeroso gruppo di ufficiali italiani catturati sui vari fronti di guerra. Gli inglesi, gente tutt’altro che tenera nei riguardi dei prigionieri (come hanno avuto modo di sperimentare moltissimi sventurati sopravvissuti all’internamento in Kenia o in Sudafrica) potevano permettersi il lusso di utilizzare i loro vasti possedimenti coloniali sparsi in tutto il mondo per organizzarvi campi di prigionia lontanissimi dai teatri operativi, in modo tale da ridurre quasi a zero le velleità e possibilità di fuga da parte dei loro malcapitati ospiti. D’altra parte, non molto diversamente si comportavano gli italiani – nel loro piccolo – nella prima guerra mondiale, quando deportavano i prigionieri di guerra austriaci in Piemonte nel forte di Fenestrelle e quelli ungheresi in Sicilia, a Vittoria.
Uno dei tanti campi di prigionia britannici nella seconda guerra mondiale si trovava a Yol, nell’India settentrionale, ai piedi della catena dell’Himalaya, non molto distante dal Tibet. In quel campo, lo stesso in cui durante la prima guerra mondiale vennero rinchiusi alcune centinaia di prigionieri tedeschi, furono deportati circa diecimila ufficiali italiani, che vi “soggiornarono” alcuni dal 1941 e altri dal 1942 fino al loro rimpatrio, avvenuto tra la fine del 1946 e l’inizio del 1947.
Il viaggio fino ai piedi dell’Himalaya non fu breve né semplice. Tutto cominciava in Egitto, dove i prigionieri catturati sui vari fronti venivano fatti affluire: a El Agami affluivano i prigionieri catturati in Grecia e a Geneifa sul canale di Suez venivano ammassati coloro che erano stati fatti prigionieri sui vari fronti africani. Caricati sui piroscafi, attraversavano il Mar Rosso verso sud, transitavano davanti alle coste dell’Eritrea ormai ex italiana, sostavano ad Aden nello Yemen e quindi attraversavano l’Oceano Indiano per dieci lunghi giorni prima di approdare in India, a Bombay. Da qui proseguivano in treno verso sud, a Bengalore, dove i sottufficiali e i soldati si fermavano, mentre gli ufficiali ripartivano verso il nord, fino ai piedi delle montagne più alte del mondo.
L’India a quel tempo era percorsa da fremiti indipendentistici ed era inevitabile che fra la popolazione locale e i prigionieri italiani, che anelavano ovviamente alla libertà, si instaurassero rapporti cordiali e solidali. Durante le fermate nelle stazioni ferroviarie la gente si accalcava attorno ai treni carichi di prigionieri e gridava “Italia, Mussolini…!”. Racconta il tenente Faustini: “Noi lanciavamo manifestini di propaganda nei quali si inneggiava all’immancabile vittoria e si diceva peste e corna degli inglesi. Gli uomini leggevano i nostri messaggi e se li passavano l’un l’altro, le donne sorridevano felici, nascondendo i fogli nel petto…”
I personaggi. La struttura detentiva era costituita da quattro “campi”, contraddistinti con i numeri 25, 26, 27 e 28. Al termine Yol i britannici attribuirono il significato “Young Officers Line”, la linea dei giovani ufficiali. Gli ospiti del campo di Yol erano tutti italiani ma caratterizzati dalle più disparate provenienze geografiche ed estrazioni sociali. Erano ufficiali di tutte le forze armate, armi e corpi, combattenti o logistici. Eccone alcuni.
Ferdinando Bozzola, piemontese di Alessandria, era un tenente della PAI, la Polizia dell’Africa Italiana, che dopo il rientro in patria transitò nella neonata Pubblica Sicurezza (l’Africa Italiana non c’era più) fino a raggiungere il grado di generale. C’era anche il capitano Ercole Sante Rossi, nato a Secugnago nel 1899, che in patria non tornò mai perché a 45 anni di età trovò la morte proprio in quel campo per mezzo delle pallottole inglesi. Era il 21 aprile del 1944 e alcuni prigionieri avevano deciso di celebrare, cantando, il Natale di Roma.
La motivazione della Medaglia d’Oro al Valor Militare è abbastanza eloquente sullo svolgimento dei fatti: “Durante la prigionia trasfondeva nei compagni, cui la sorte lo aveva accomunato, la sua fierezza di combattente sostanziata da ardente amore per la Patria esausta in conseguenza di diversi avvenimenti bellici. All’ordine perentorio dell’autorità detentrice di scioglimento di una riunione di Ufficiali, che nella ricorrenza di una festa nazionale si erano fraternamente raccolti per ricordare la Patria lontana con nostalgiche canzoni di guerra e inni patriottici, si opponeva con dignitosa fierezza e anziché piegarsi all’imposizione preferiva affrontare da forte la prevista immancabile reazione a fuoco che ne stroncava la fiorente giovinezza”. (Yol, India, 21 aprile 1942).
E’ interessante notare che la motivazione della Medaglia d’Oro, concessa dopo la fine della guerra e pertanto in epoca di defascistizzazione e di repubblica democratica, si esprima con un linguaggio tipico dell’epoca. I militari vengono definiti non “camerati” ma “compagni”, si glissa con noncuranza sul tipo di canzoni patriottiche cantate dal Rossi (è facile immaginare, come in effetti fu) che il repertorio non potesse non includere inni come “Giovinezza”, “Faccetta Nera”, l’“Inno a Roma” o la “Marcia Reale”) e non si cita nemmeno quale fosse la “festa nazionale” in questione, che solo dalla data di morte del Rossi (21 aprile) si desume fosse il Natale di Roma. Particolari sulle esequie: il corteo funebre era aperto da un picchetto d’onore inglese in armi, e non mancarono la corona d’alloro del comandante del campo, gli spari a salve e i trombettieri che suonarono il silenzio.
C’era anche Lido Saltamartini, che documentò la vita del campo con un eccezionale reportage fotografico, realizzato con una minuscola macchina fotografica costruita da lui stesso con materiale di recupero: una scatola metallica di sigarette Waltham’s, lo stagno ricavato da un tubetto di dentifricio “McLeans”, che era l’unico di stagno tra gli altri di piombo, la candela avuta in prestito dal Cappellano militare con promessa solenne di restituzione immediata al rientro in Italia, il cannello ferruminatorio ricavato da una scatola di salsicce di soia e una piccola lente da 4 millimetri. Prima di arrivare a Yol, Saltamartini aveva trascorso un anno di prigionia a Bengalore, nello stato di Mysore, dove era riuscito a mettere insieme l’apparecchio e a salvarlo dalla perquisizioni; anche il trasferimento da Bengalore a Yol, 2.500 chilometri percorsi in 144 ore, passando da un treno all’altro con brevi soste nelle stazioni, è stato abilmente documentato da una serie di foto scattate da Saltamartini dal finestrino del treno. Con questo apparecchio scattò ben duemila fotografie, che venivano nascoste all’interno di sigarette svuotate dal tabacco e nei tubetti di dentifricio; di queste, cinquecento andarono perse mentre le altre, conservate con cura per cinquant’anni, sono state raccolte in un libro: “10.000 prigionieri in Himalaya – tesori, orsi, idee, fughe”. L’autore è oggi un signore centenario, che ha creato una fondazione per ricordare quel periodo della sua vita e i compagni con cui l’ha condiviso, aiutando i bambini sordociechi.
E fra i cappellani militari c’era padre Enrico Galli, dei missionari d’Africa, catturato in Cirenaica, che per tutto il periodo della prigionia continuò a scrivere appassionate lettere alla rivista della Lega Missionaria Studenti e all’Opera dei Padri Bianchi. Con la sua folta barba sul viso emaciato, l’occhio vivo e la fede ardente, padre Galli rifiutò ogni privilegio per condividere la vita del prigioniero e alla fine delle celebrazioni religiose pronunciava sempre la preghiera del prigioniero.
Un altro ufficiale fatto prigioniero a Tobruk e internato a Yol era il colonnello Carlo Rostagno, nato il 21 febbraio 1894, da antica famiglia piemontese. Veterano del primo conflitto mondiale, Rostagno si rese protagonista della costituzione a Yol di un centro di studi universitari, che contribuì fattivamente all’elevazione culturale di molti ufficiali; la sua iniziativa venne molto apprezzata anche dalla Santa Sede e dalla Croce Rossa. Al rientro in Patria, Rostagno comandò l’artiglieria della Divisione motorizzata “Trieste”. Terminò la sua carriera militare come Comandante Generale della Guardia di Finanza dal 1954 al 1957.
C’era anche Prospero Del Din, friulano, tenente colonnello degli alpini e padre di Renato, a sua volta tenente degli alpini. Renato, mentre il padre era prigioniero in India, dopo l’8 settembre 1943 fu tra gli organizzatori delle brigate partigiane “Osoppo” in Carnia e il 25 aprile 1944, non ancora ventiduenne, cadde durante l’attacco alla caserma tedesca di Tolmezzo, meritandosi la Medaglia d’Oro al Valor Militare. Paola Del Din, la sorella di Renato, di un anno più giovane, entrò a sua volta nella resistenza con il nome di battaglia di “Renata”, effettuando pericolose azioni e aviolanci, guadagnando anche lei la massima ricompensa al valor militare.
C’era il tenente del genio Amedeo Taranta, volontario di guerra catturato all’Asmara nel ’41 dopo l’aggiramento del fronte di Cheren. A Yol Taranta si improvvisò postino, e per anni si accollò l’onere di ricevere e distribuire la posta in arrivo dall’Italia, o quantomeno ciò che gli inglesi lasciavano, dopo avere depredato viveri, liquori, libri, quaderni e anche i medicinali, con la scusa che servivano all’ospedale. Un giorno Taranta lesse su un giornale che avvolgeva un pacco che al comandante Faggioni, affondatore di un incrociatore e di una nave mercantile nemica, era stata concessa la Medaglia d’Oro. Faggioni, ignaro di tutto, si trovava proprio lì al campo. Alcuni giorni dopo, nel corso di una improvvisata cerimonia militare davanti ad un busto in creta del Re Imperatore, l’ufficiale più anziano consegnò la ricompensa all’eroico marinaio, utilizzando il nastrino di un’altra Medaglia d’Oro presente nel campo, il colonnello Tonini.
E c’era anche Nino Nutrizio, celebre giornalista che in seguito divenne direttore del quotidiano “La Notte”. Superstite della battaglia navale di Capo Matapan del 28 marzo 1941 in cui la flotta italiana perse 2.000 uomini e 5 navi, fu prigioniero a Yol fino alla fine del 1946. Sportivissimo (faceva un’ora di ginnastica ogni mattina) e coltissimo, durante la sua forzata permanenza al campo 25 si distinse come allenatore di una valida squadra di calcio (il campo di calcio fu inaugurato il 9 maggio 1944 dal Console Generale della Milizia, Gambrosier) e di una di pallacanestro e come conferenziere, ogni sabato, su argomenti di attualità. Una sua brillante commemorazione del Duca d’Aosta fece piangere l’uditorio, ma una sua conferenza su Churchill gli procurò l’ostilità dei fascisti più sfegatati. Alcuni di loro sottoscrissero un verbale in cui lo accusarono di tradimento per avere dimostrato troppa ammirazione nei riguardi dello statista britannico.
Uno che non sopportava l’ospitalità britannica era Elios Toschi, capitano del Genio Navale e inventore, insieme a Teseo Tesei, dei celebri “maiali”, i mezzi d’assalto della Regia Marina che terrorizzarono i britannici a Gibilterra, Alessandria e in tutto il Mediterraneo. Fuggì una prima volta da Yol (con un collega che riuscì a riparare nel possedimento portoghese di Diu) e tentò di rimpatriare scavalcando la catena dell’Himalaya, ma fu catturato e riportato a Yol. Da qui fuggì una seconda volta da solo, attraversò mezza India travestito con costumi locali e riuscì a rifugiarsi a Goa, altro possedimento portoghese.
(continua)