La storia dei diecimila soldati italiani prigionieri in India (2a parte)
06 Febbraio 2010
La vita nel campo. Ciascuno dei quattro campi (25, 26, 27 e 28) era diviso in cinque recinti, e ogni recinto contava una decina di baracche di legno con il tetto in eternit. In ogni baracca, sei stanzette per un totale di trentasei prigionieri. Altre baracche erano adibite ai vari servizi: docce, mensa, una cappella per recinto (“Stringendosi un po’, gli italiani hanno fatto posto a Nostro Signore”, scrisse ammirato monsignor Pietro Leone Kierkels, delegato apostolico in India dalla sua sede di Bengalore, in una sua relazione alla Santa Sede), ma anche attrezzature sportive per mantenere l’efficienza fisica, un campo da tennis e un cinema all’aperto che gli “ospiti” potevano frequentare, ma a pagamento. Il cimitero, invece, era ad una decina di chilometri, a Dharmsala, una località molto più confortevole di quella destinata ai viventi. In cinque anni, novantotto volte quella strada fu purtroppo percorsa da cortei funebri da e per quel sito che i nostri chiamarono “il campo 29”.
L’ambiente del campo era relativamente confortevole, se paragonato ad altri campi di prigionia britannici. Nessun paragone, poi, con altri campi di detenzione o di sterminio in Germania o in Unione sovietica. Ogni tanto, una perquisizione. Scrive il capitano Faravilla nel suo diario: “Mi hanno perquisito ad Alessandria, a Bardia, a Latrun, a Geneifa, sulla nave, a Bombay, a Bhopal, sul treno e ora cercano tra i miei stracci ancora qualcosa. Non ho nulla con me, nulla da nascondere, se non la mia certezza che questa macabra avventura finirà presto, spero, con scorno dei nostri nemici”.
Senza una specifica attività, si finiva lentamente in preda alla disperazione. Era indispensabile quindi impegnarsi, avere uno scopo, un traguardo. Ecco allora gli innumerevoli metodi escogitati per passare il tempo, dalla musica alla pittura, dalla realizzazione di una rivista stampata grazie alla gelatina recuperata da una lastra di radiografia alla costruzione di incredibili marchingegni: macchine fotografiche con l’obiettivo ricavato da un fondo di bicchiere, apparati radiofonici perfettamente funzionanti, strumenti chirurgici, orologi di metallo e di legno, strumenti di geodesia per misurare le quote delle montagne, un telescopio a 80 ingrandimenti, un fucile, un apparecchio per la trasfusione del sangue, una turbina con caldaia e perfino una trebbiatrice di 60 centimetri.
Una citazione a parte merita un’altra ingegnosa realizzazione dei prigionieri: una macchina per distillare l’acquavite. La distillatrice era costruita con le latte delle salsicce di soia e con i tubetti di dentifricio e funzionava perfettamente, anche se la produzione era piuttosto modesta: di solito ci lavoravano in sette per una notte intera per ottenere una bottiglietta d’alcool puro, che poi veniva venduto agli inglesi. Racconta Giorgio Vuxani che i britannici non gradivano molto la perfetta trasparenza dell’acquavite, quindi i nostri la colorarono: bastava lasciarvi macerare per qualche giorno un pezzo di suola di scarpone, putrida e in disfacimento, e la preziosa bevanda assumeva il colore del whiskey. I sudditi di Sua Maestà Britannica ne restarono estasiati.
Tutto questo destava la stupita ammirazione dei carcerieri indiani, che poi lo raccontavano alle autorità britanniche, magnificando le risorse morali e l’industriosità degli italiani. Gli inglesi ribollivano di rabbia, e uno di loro scrisse in un rapporto “è impossibile che gli italiani, noti nel mondo per la poca attitudine al lavoro, sappiano creare, senza complici e senza aiuti esterni, opere degne di figurare in una mostra di materiali di precisione”. Pertanto gli inglesi organizzarono frequenti perquisizioni notturne a sorpresa, soprattutto per sequestrare le radio clandestine, ma non riuscirono mai a scoprire niente: ogni notte le radio venivano smontate e i pezzi venivano nascosti in nascondigli impensabili. Anche dopo la completa evacuazione dei campi gli inglesi continuarono le ricerche delle radio con i metal detectors, ma non trovarono mai nulla: le radio erano già state vendute al personale di guardia indiano.
Le giornate cominciavano sempre con la sveglia e la successiva “conta” dei prigionieri, sorvegliati da guardie armate. I soldati, in gran parte indiani, avevano l’arma incatenata al corpo, in modo che se un prigioniero avesse voluto impossessarsi di un fucile (per fare che cosa, per conquistare l’India?) avrebbe dovuto prendersi cura anche del fuciliere incatenato all’arma. Una seconda conta dei prigionieri aveva luogo alle quattro del pomeriggio.
Si poteva scrivere a casa, e le cartoline postali erano già predisposte: poche righe in un italiano approssimativo, bastava sbarrare la voce prescelta. E guai a scrivere qualcos’altro: la cartolina veniva immediatamente distrutta. Periodicamente ai prigionieri veniva corrisposta la paga prevista, in sterline inglesi, ma solo nella misura del 50%, e la quota rimanente sarebbe stata consegnata il giorno del sospirato rimpatrio. Nonostante la lontananza dalla Patria, ci fu chi tentò la fuga. Talvolta i tentativi fallivano, come in quella notte del 1942 quando due giovani ufficiali (uno di loro era il sottotenente dei bersaglieri Petroncini) furono sorpresi dalle sentinelle e uccisi a sangue freddo mentre, arresisi, stavano fermi con le braccia alzate. Altre volte le fughe erano più rocambolesche e qualcuno riusciva, dopo mille peripezie come fece Elios Toschi, a raggiungere Goa, allora dominata dai portoghesi, o la Birmania, che era controllata dai giapponesi. Altri venivano improvvisamente abbandonati dalla fortuna quando la meta sembrava a portata di mano, come nel caso del pilota romano Arturo Leuchard, che raggiunse prima Calcutta, poi ritornò indietro fino quasi al Pakistan con lo scopo di raggiungere Peshawar ma all’ultimo momento fu tradito da un prete spagnolo e catturato (20.000 rupie di taglia facevano comodo a tutti).
Per alienante che fosse quella vita (ci fu anche chi si suicidò), nessun paragone è possibile con la prigionia in Urss. Certo, anche a Yol era possibile prendersi i pidocchi, ma almeno non c’era Palmiro Togliatti a farlo pesare. Sì, perché contemporaneamente, nei campi di prigionia sovietici, i prigionieri italiani ricevevano, loro malgrado, le visite dei fuorusciti comunisti “italiani” che tentavano di indottrinarli politicamente. E quando i nostri prigionieri laceri e macilenti si avvicinavano curiosi a questi personaggi ben vestiti e ben pasciuti, Togliatti, con il suo caratteristico linguaggio forbito, esclamava: “State ben discosti da me di almeno un metro, che non voglio essere contaminato dai vostri pidocchi!”.
Effettivamente ai prigionieri di Yol vennero risparmiate le visite di Togliatti, e quando il “migliore” affermò che era un bene che i prigionieri italiani crepassero in grande quantità, così ci sarebbero state più famiglie in cui potessero svilupparsi sentimenti di sano antifascismo, non si riferiva certo ai prigionieri di Yol ma esclusivamente a coloro che avevano osato attaccare la “sua” patria, quella sovietica.
L’intelligence e l’amore. L’intensa e scrupolosa attività di intelligence (perquisizioni, interrogatori) cui i britannici sottoponevano i nostri ad un certo punto venne “ribaltata” e furono gli inglesi a diventare non più soggetto ma oggetto di intelligence. E questo ad opera di un brillante ufficiale dei Reali Carabinieri, il tenente Luigi Mattioli, uno che definire “valoroso” è poco. Mattioli venne catturato a Bardia, in Libia, dopo che ebbe coperto con un manipolo di disperati la ritirata del Generale Bergonzoli (il mitico “barba elettrica”) e del suo stato maggiore. Ci vollero sei carri armati nemici per aver ragione di Mattioli asserragliato fra le rocce. A Yol Mattioli si accorse ben presto dei fremiti di libertà e dei sentimenti antibritannici degli indiani, e decise di far pervenire in Italia queste informazioni di carattere strategico. Riuscì a produrre dell’inchiostro simpatico e a convincere alcuni ufficiali a collaborare con lui. Dopo avere scritto le loro lettere alle famiglie, i suoi colleghi le consegnavano a Mattioli che scriveva le sue informazioni fra una riga e l’altra con l’inchiostro simpatico. La sorella del Mattioli, che abitava a Bologna e che era stata opportunamente e segretamente indottrinata, doveva poi recuperare le lettere e farle recapitare a chi di dovere. Lo stratagemma funzionò e al governo italiano per oltre due anni giunsero notizie riservate, anche di notevole importanza.
Nel frattempo il Mattioli, appellandosi alla convenzione di Ginevra secondo cui ogni prigioniero ha diritto di professare qualsiasi religione e di frequentare i relativi luoghi di culto, aveva finto di convertirsi all’Islam per avere la possibilità di frequentare la locale moschea (prima di ottenere l’autorizzazione, l’interessato inoltrò ben venticinque istanze scritte alle autorità britanniche, e non certo con l’inchiostro simpatico!) e di acquisire notizie dai soldati indiani provenienti dai vari fronti, cosa che fece egregiamente anche per avere imparato perfettamente la lingua locale. Tutto andò bene fino al settembre del 1943, quando un collaboratore del Mattioli, diventato badogliano, denunciò il tenente dei Carabinieri, che venne imprigionato. La guerra civile era arrivata anche a Yol.
Ma se la politica divide, l’amore unisce. Ne sa qualcosa il tenente Salvatore Ferruzza, che intrecciò una storia sentimentale nientemeno che con la figlia del comandante inglese del campo, la graziosa diciottenne Sylvia Barwood. Prima alcune timide occhiate e qualche sorriso fra i reticolati, poi lo scambio di lettere, e infine gli inviti a pranzo nell’abitazione del comandante. Il comandante Barwood disse un giorno al tenente italiano invitato a pranzo: “Sfortunatamente per lei e per mia figlia, siete incappati in tempi poco propizi per una relazione sentimentale. Da parte mia mi sforzo di chiudere gli occhi, ma non so fino a quando ciò mi sarà possibile. Intanto, buon appetito”. La ragazza, alla fine, sposò un inglese.
La guerra civile italiana arriva in India. L’8 settembre del 1943 si fece sentire anche a Yol. L’ambiguo proclama badogliano venne diffuso dagli altoparlanti del campo e gli inglesi spiegarono ai prigionieri che l’Italia era divisa in due: al sud invaso dagli angloamericani i fedeli al Re e a Badoglio, e al nord occupato dai tedeschi i fedeli a Mussolini e alla Repubblica Sociale. I prigionieri furono invitati a scegliere, in un ambiente caratterizzato dalla tipica precisione britannica: furono fatti sfilare in fila “indiana” (è proprio il caso di dirlo) e a ciascuno venne posta la domanda: “Sei fascista o antifascista?” e ciascuno doveva firmare la sua dichiarazione. Coloro che sceglievano di restare fascisti venivano sistemati nel campo 25 (e furono più di 1.500), mentre gli altri, che risultarono in maggioranza, venivano destinati ai campi 26, 27 e 28. Non si sa quanto influì sulle decisioni degli internati il fatto che i britannici avevano fatto preventivamente sapere ai prigionieri che agli “antifascisti” sarebbe stato concesso di uscire dal campo.
Fra i 1.500 non collaborazionisti si sparse subito il detto “repubblica fascista dell’Himalaya”. Il 9 febbraio 1944 gli irriducibili si riunirono per riconoscere la validità dell’Asse Roma-Berlino e per giurare fedeltà alla Repubblica Sociale Italiana. Non sapevano che proprio quel giorno, in Italia, nell’anniversario della Repubblica Romana di Mazzini e Garibaldi, tutti i componenti delle forze armate della RSI giuravano con la formula “Giuro di servire e difendere la Repubblica Sociale Italiana nelle sue istituzioni e nelle sue leggi, nel suo onore e nel suo territorio, in pace e in guerra, fino al sacrificio supremo. E giuro di combattere per l’indipendenza e l’avvenire della Patria”.
Il successivo 15 ottobre i non collaborazionisti intrapresero un nuovo clamoroso passo: ogni prigioniero scrisse una lettera al Comitato Internazionale della Croce Rossa di Ginevra, in cui dichiarava “…di non riconoscere l’armistizio dell’8 settembre ’43 tra gli alleati e Badoglio, di considerarsi soldato e cittadino della RSI […] e di volere essere trattato alla stregua dei prigionieri di guerra delle Potenze dell’Asse”. I non collaborazionisti, o semplicemente “non”, come vennero chiamati, usavano i saluti romani e le camice nere, la data dell’Era Fascista in tutti gli scritti e ostentavano l’uso del “Voi”, comportamento che causava giorni di prigione. Gli inglesi cercarono anche di convincerli con la fame, e somministrarono loro misere razioni viveri da 900 calorie al giorno, mentre agli antifascisti ne spettavano più del triplo: 2.900, ma non ci fu niente da fare. I britannici poterono solo rimpatriare per ultimi questi “duri a morire”.
(continua)