La storia dei diecimila soldati italiani prigionieri in India (3a parte)
13 Febbraio 2010
Le ascensioni alpinistiche. Coloro che ebbero la facoltà di allontanarsi dal campo poterono non solo visitare i villaggi vicini, ma anche avvicinarsi alle montagne. Infatti la vista delle maestose cime himalayane aveva esercitato già da tempo una forte attrazione su taluni ufficiali, soprattutto fra i molti provenienti dalle truppe alpine, che chiesero ai loro carcerieri di poter uscire dai reticolati per frequentare l’ambiente montano circostante, così ricco di maestose cime inviolate. E così ottennero, forse unico caso nella storia del secondo conflitto mondiale, di uscire “sulla propria parola d’onore” dal campo di prigionia per affrontare alcune cime dell’Himacal Pradesh.
Prima isolati e poi a gruppetti sempre più numerosi, affrontarono con grande entusiasmo ma con attrezzature alpinistiche precarie e primitive per prima la cima del Dhar Narwana (4.690 metri, una quota di poco inferiore a quella del Monte Bianco) nell’ottobre del 1943. Al rientro nel campo di prigionia dopo la prima ascensione, una dettagliata relazione venne consegnata alle autorità britanniche, mentre il racconto dei protagonisti, oltre alla vista delle fotografie e dei disegni, suscitò l’entusiasmo negli altri colleghi, e ben presto si organizzò l’ascensione a Punta Lena (4.807 metri), ribattezzata “il Cervino del Dhaula Dhar” per la sua somiglianza con quello vero, e il 23 novembre del 1943 un gruppetto intirizzito dal freddo vi piantò in cima una bandierina italiana.
La primavera successiva toccò al Guarjunda (5.287 m.), una bella cima, la più alta del Dhaula Dhar, con vista sul Kashmir e sul Karakorum, che venne conquistata il 6 giugno 1944 (proprio lo stesso giorno in cui dall’altra parte del mondo, in Normandia, sbarcavano gli angloamericani e a Roma usciva il primo numero del quotidiano “Il Tempo”) da un gruppo di ardimentosi equipaggiati nientemeno che con …una corda e un chiodo!
Dopo il Two Guns Peak (4.570 m.) raggiunto nel mese di giugno del 1944, l’attività alpinistica riprese nella primavera del 1945. Mentre la guerra in Europa stava per terminare, i prigionieri di Yol conquistarono il Kuja-ka-Tilla (5.447 m.) nel maggio-giugno, il Mulkikà nel mese di giugno, che con i suoi 6.517 metri fu la vetta più alta da loro affrontata, Cima Italia (6.163 m.) nel mese di luglio, vetta fino ad allora inviolata, il Kailas del Chamba (5.656 m.) fra giugno e ottobre e Cima Otto (4.981 m.) nell’ottobre del ’45.
Nello stesso periodo, inoltre, fu portata a termine una straordinaria impresa di trekking: fra il 6 settembre e l’8 ottobre 1945 tre ufficiali (Gualtiero Bernardinelli, Giovanni Battista Mazzolini e Luciano D’Avanzo) effettuarono un’escursione a vasto raggio fino al lago Moriri nel Piccolo Tibet. Ben 550 chilometri furono percorsi a piedi in 27 giorni superando svariati colli fra i 4.000 e i 6.000 metri di quota in un ambiente di incontaminata, selvaggia bellezza. Nel 1946, benché la guerra mondiale fosse ormai terminata da un anno, i nostri (anche chi si era dichiarato collaborazionista con gli inglesi!) erano sempre detenuti a Yol e nel mese di maggio una squadra riuscì a salire sul Kundli Got (4.581 m.).
Queste imprese alpinistiche hanno dell’incredibile se si paragonano le quote raggiunte con le povere attrezzature di cui i protagonisti disponevano. E i risultati ottenuti furono sicuramente importanti: oltre ad aver conquistato alcune cime – fino ad allora inviolate – in condizioni quanto meno precarie, furono conseguiti anche interessanti risultati scientifici come il rilevamento topografico di catene montuose ancora poco conosciute, la verifica e l’aggiornamento del materiale cartografico, l’osservazione dei fenomeni di innevamento e glaciazione, la raccolta di numerosi schizzi panoramici e di notizie sull’ambiente antropico.
Ma al di là dei risultati alpinistici o scientifici, ciò che appare particolarmente importante è la motivazione spirituale che ha spinto quegli ufficiali a voler uscire dai reticolati: un insopprimibile anelito di libertà, la volontà di mantenere viva e attiva la propria professionalità, il senso di attaccamento ai valori della montagna, in una parola quello “spirito di corpo” che non viene meno neanche in condizioni difficili e a migliaia di chilometri dalla Patria.
Verso la libertà. Dopo la fine della guerra ai prigionieri (ma non a quelli rimasti fascisti) venne concessa una graduale libertà, sebbene entro precisi confini territoriali, e così poterono venire in contatto con l’ambiente locale, i villaggi e i loro abitanti, i monasteri e i monaci buddisti, le piante e gli animali. Ma era una libertà amara, condizionata dall’impossibilità di goderne appieno. La possibilità del ritorno a casa, infatti, appariva ancora lontana, legata all’interminabile attesa di un piroscafo. Iniziarono così i tentativi per procurarsi altri mezzi, e così qualcuno progettò la costruzione di un piccolo aliante a motore e altri pensarono di acquistare una motocicletta con agli arretrati dello stipendio accumulati negli anni di prigionia. Alla fine, nei primi mesi del 1947, arrivarono i camion anche per gli ultimi “ospiti”, che li trasportarono prima verso la stazione ferroviaria di Nagrota; da lì il viaggio proseguì in treno fino a Bombay e poi in piroscafo fino a Napoli.
Ma anche dopo aver baciato il patrio suolo i problemi per gli ex prigionieri non cessarono di colpo, e il loro reinserimento nella società non fu semplice né rapido: i fascisti non trovarono più il fascismo, i monarchici non trovarono più la monarchia, gli antifascisti e gli antimonarchici trovarono un nuovo sistema che non avevano contribuito a costruire, i fratelli non trovarono più i fratelli divorati dalla guerra (compresa la peggiore, quella civile), i figli non trovarono più i genitori, i padri trovarono figli che non avevano ancora visto e dai quali stentavano a farsi riconoscere…
Ci fu anche chi rimpianse Yol.
Ritorno a Yol. Il primo giornalista italiano che nel dopoguerra visitò Yol fu Gino Tomajuoli, inviato del settimanale “Tempo”, che realizzò un interessante articolo nel maggio del 1949.
Un anno più tardi fu il settimanale “Gente” che realizzò un bel servizio a puntate, opera del giornalista Alfredo Ferruzza (fratello del prigioniero Salvatore Ferruzza) e del fotografo Vittoriano Rastelli, che percorsero 38.000 chilometri in Asia e in Africa, sulle tracce dei nostri prigionieri.
L’India era ormai diventata indipendente e aveva già iniziato la sua “eterna guerra” con il Pakistan per il possesso del Kashmir, Gandhi era stato ucciso e l’Italia aveva aderito all’Alleanza atlantica. Tomajuoli ottenne un permesso per visitare il campo per cinque minuti ma con vari sotterfugi vi rimase per un giorno intero. “Non dirò come, ma sono entrato nei campi, nelle baracche, sono salito sulle torrette da dove le sentinelle sparavano a colpo sicuro, sono entrato al cinema, mi sono intenerito alla vista del colossale lavoro che i nostri hanno dovuto compiere per spianare sul clivo della montagna sassosa un campo di calcio sostenuto da un terrapieno alto sette-otto metri…” raccontò Gino Tomajuoli.
Dei vari campi, solo il 28 era ancora abitato, e sempre da prigionieri, che stavolta erano i nemici della nuova India: indiani dissidenti, comunisti, anche due ufficiali britannici consiglieri dell’esercito pakistano, catturati nel Kashmir. Il direttore del campo, un capitano sikh, ricordava ancora gli italiani con benevolenza e ammirazione, e auspicava il loro ritorno in massa, beninteso come turisti. L’accompagnatore fece notare la differenza di comportamento fra gli attuali ospiti, che vegetavano nullafacenti, e gli italiani che “non si rassegnavano mai”, lavoravano, studiavano e producevano. L’unico sforzo dei sorveglianti attuali era quello di tenere sgombre dalle erbacce alcune parti degli orti creati dagli italiani per continuare a ricavarne pomodori ed erbe aromatiche.
“Dappertutto in India – raccontava Tomajuoli – si scopre per l’Italia e gli italiani una viva simpatia, una curiosità cortese. Gli indiani sono stati educati per cinque generazioni dagli inglesi, che instillarono in loro la convinzione che l’Europa è costituita da una potente, immensa e laboriosa Inghilterra e da una mescolanza di piccoli stati da essa dipendenti, incapaci di governarsi, produrre e vivere senza l’appoggio dell’industria inglese. Sono stati i prigionieri italiani a far sorgere i primi dubbi nella gran massa degli indiani: un impercettibile contributo, assolutamente involontario, alla lenta affrancazione dell’India dal mito della superiorità inglese”.
(fine)