La storia di Mirsad che impara il  jihad tra internet e youtube

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La storia di Mirsad che impara il jihad tra internet e youtube

06 Novembre 2007

Sorrideva, il
diciottenne Mirsad Bektasevic, quando la Corte di Bosnia Erzegovina l’ha condannato  a quindici anni di prigione per aver organizzato
un attentato a Sarajevo nel 2005. Attacco sventato, ma erano pronte le armi,
l’esplosivo e il video di rivendicazione. Lo stesso ghigno sarcastico di Mirsad
lo abbiamo rivisto sul volto dei jihadisti che ascoltavano la sentenza del
Tribunale di Madrid per le bombe dell’11 Settembre 2004. Centoquindicimila anni
di carcere sono una vacanza se hai come obiettivo le settantadue vergini.
Mirsad deve scontare una condanna meno eccezionale dei ‘fratelli’ di Atocha, eppure
dal giorno del processo ha perso la sua faccia di bronzo. Quando è tornato in
aula aveva un’espressione vagamente rincretinita. Niente più barbetta talebana
e sguardo da gradasso. Imbolsito da un anno di galera, forse ha capito che la
sua vita è rovinata per sempre. E chissà se per un attimo si è pentito,
ripensando alla sua giovinezza sprecata.

Bektasevic
nasce il 30 giugno del 1987 a
Ilidza, periferia di Sarajevo. La
Jugoslavia è allo sbando, serbi e musulmani affilano le armi
in attesa di scannarsi. Da bambino Mirsad respira questo conflitto etnico
radente, a cui si aggiunge presto la scomparsa del padre, morto in un incidente
d’auto. Quando scoppia la guerra in Bosnia, Mirsad ha cinque anni. Nel 1994
sperimenta le cannonate del generale Mladic su Sarajevo. A gennaio, quattro
granate colpiscono un gruppo di bambini che giocavano sulla neve. Sei morti che
si aggiungono alle altre millecinquecento vittime cadute dall’inizio dell’assedio.
Allora la madre Nafija decide che è venuto il momento di andarsene, prepara le
valigie e fugge in Svezia con il figlio.

Mirsad cresce
a Kungaly, una cittadina sulla costa occidentale della Svezia, a nord di
Goteborg. La comunità islamica svedese è una delle più estese e influenti sul
territorio europeo. La diaspora musulmana ha raggiunto la parte orientale della
penisola scandinava nel secondo dopoguerra. Il gruppo di immigrati più numeroso
è quello iracheno, subito dopo i bosniaci e i kosovari, ma anche turchi,
somali, iraniani e libanesi. Mirsad è solo un ragazzino ma capisce che nella
tollerante Svezia è tutta un’altra storia, la sua fede non viene perseguitata
anzi è maggioritaria, vincente. Tutti sono molto attenti a non offendere Mirsad,
perché è profugo, orfano, ‘diverso’. Per i democratici del Nord Europa le
minoranze vanno tutelate anche se stanno diventando la maggioranza. Le
organizzazioni islamiche chiedono al governo leggi separate per i musulmani,
vogliono una moschea per ogni città e non risparmiano frecciate alla comunità
ebraica.      

A quindici
anni Mirsad è un campione della net generation. Passa le giornate davanti al
computer, ma non usa internet soltanto per scaricare qualche canzone. S’imbatte
sempre più spesso in siti islamisti che trasmettono il loop delle Torri Gemelle
che crollano, tra applausi, sghignazzi e schiamazzi. Viene definito e-jihad, è la guerra santa elettronica di
Al Quaida contro Israele e gli Stati Uniti. Il network del terrore dimostra di
essere all’altezza dei tempi: tecnologicamente avanzato e religiosamente arretrato.
Un modernismo reazionario che ha minato la più grande svolta democratica della
società globale, la rivoluzione informatica. Mirsad è abbastanza giovane e
incazzato per cadere nella rete del proselitismo. Vuole vendicare la sua infanzia
cancellata in Bosnia e si nutre delle storie di infedeli, ebrei e crociati, è affascinato
da questa mitologia sacrificale.

Su Internet
ci sono siti da sballo per i candidati al martirio. Clicca il link ed ecco
spuntare l’università di Al Quaida on line. Per i migliori studenti sono
previsti seminari e stage in jihad elettronico, jihad psicologico, tecnologia
degli esplosivi e teoria delle autobombe. Bisogna studiare per imparare a non
essere filmato dalle telecamere in luoghi pubblici e perfezionare le tecniche
di criptaggio elettronico della casella di posta elettronica. “È nostro diritto
terrorizzare i nemici, incutendo nei loro cuori la paura e l’angoscia. Ciò è
quanto sta accadendo con l’aiuto e la grazia di Allah”. Mirsad pensa all’Iraq e
si convince che il suo destino è questo, mettere paura al mondo intero perché
il mondo è stato ingiusto con lui.

Chattando con
il nick “Maximus”, Mirsad incontra finalmente il suo mentore. In rete di fa
chiamare Abu Usama El-Swede, ma sulla carta d’identità c’è scritto Ralf Wadman,
uno svedese convertito all’Islam nel 1998. El-Swede ha un passato di piccola
criminalità, droga, botte e rapine. Prima di ravvedersi ha militato nei gruppi
neonazisti ed è stato arrestato per spaccio. Ora frequenta la Moschea Bellevue
di Goteborg, la più grande della città svedese, con oltre duemila fedeli in
maggioranza somali e arabi. Ma non dimentica i vecchi amici con la testa
rasata: nel 2004 interviene in un forum di discussione su come abbattere il
governo svedese. El-Swede è una mediattivista particolarmente creativo. Pare
che sia stato lui a commissionare il video in cui due ragazzini mimano la
decapitazione di Nick Berg, immagini ancora disponibili su You Tube.

Prima del suo
arresto, El Swede entra nelle grazie di Abu Hamza, il capitan uncino
dell’islamismo londinese. Anche Abu Hamza è un buon padre adottivo per orfani
come Mirsad. Il predicatore di Finsbury
Park
viene dalla Bosnia e ha combattuto contro i serbi nelle milizie dei
mujahidin arabi, la famigerata Brigata 505. Secondo Hamza, il disastro dello
Space Shuttle Columbia è stato un
segno del cielo. La fine dell’Impero americano è vicina.

Grazie a El-Swede,
la moschea diventa per Mirsad il luogo dove trascorrere (tutto) il suo tempo
libero. Nafija, la madre di Mirsad, dice che suo figlio è cambiato dopo aver
conosciuto El-Swede e ascoltato Hamza, “prima non era mai stato religioso, ma
negli ultimi anni aveva iniziato a praticare molto seriamente. C’erano persone
che lo minacciavano e che gli parlavano dell’aldilà e gli dicevano che sarebbe
stato torturato all’inferno se non avesse pregato e non avesse creduto”.

Il 27
settembre del 2005, Mirsad torna a Sarajevo. Lo sta aspettando Abdulkadir
Cesur, di nazionalità turca, arrivato a sua volta dalla Danimarca. I due trascorrono
un paio di settimane in città, immaginano come usare l’esplosivo che si sono
portati dietro. Vogliono colpire un obiettivo strategico del governo bosniaco
oppure una delle ambasciate degli stati occidentali impegnati in Afghanistan e
Iraq. Ma restano una coppia di ragazzini sbandati, non sono terroristi
professionisti. E qualcuno sta seguendo le loro mosse. La notte del 19 ottobre
gli agenti del controterrorismo bosniaco circondano l’appartamento che Mirsad
ha affittato a Sarajevo. Quando i poliziotti sfondano la porta e fanno
irruzione il ragazzo grida “Chi cazzo siete voi per venire a cercarmi a casa, you trash!”.

Nella stanza
la polizia trova 20 grammi
di esplosivo in polvere, una pistola, un timer, e un video in cui militanti con
il volto coperto danno istruzioni su come confezionare una bomba e annunciare
l’attacco. Il tipico kit del kamikaze. Nel messaggio si ricorda che “queste
armi saranno usate contro l’Europa” e poi, “questi due fratelli si sacrificano
in nome di Dio per aiutare i loro fratelli e sorelle. Siamo qui, ci stiamo
preparando, e abbiamo tutto sotto controllo”. Forse Mirsad non era tornato a
Sarajevo solo per saltare in aria, probabilmente aveva intenzione di trovare
altri affiliati da spedire in Iraq. Secondo il Times, Mirsad è un reclutatore
di Al Quaida e avrebbe addirittura incontrato Abu Musab al-Zarqawi, il leader quaidista
in Iraq. Dopo il suo arresto, Mirsad è stato interrogato a lungo dai servizi
segreti inglesi. Il sospetto è che sia lui l’hacker che ha diffuso in rete il
plot di un attacco multiplo con bombe umane suicide su Washington.          

Il 10 gennaio
del 2007, Mirsad Bektasevic è stato condannato per terrorismo, possesso
illegale di armi da fuoco e resistenza all’arresto. La sua storia ci mostra come
sia pericoloso l’intreccio tra il web, le moschee e il jihad – la manipolazione
mentale e virtuale delle giovani generazioni. Non solo, da questa vicenda
emerge con chiarezza che l’islamismo bosniaco non è stato smantellato del tutto
dopo la guerra degli anni novanta. Resta da scrivere la storia delle complicità
tra potenze occidentali, Iran e Arabia Saudita, la strana alleanza che permise
a qualche migliaio di mujahidin di arrivare nei Balcani per sconfiggere i
serbi. Clinton permettendo. Secondo gli analisti più ottimisti, oggi Sarajevo non
è un centro del jihadismo. L’islam balcanico è sempre stato più ‘moderato’ che
altrove. Eppure dopo l’11 Settembre sei algerini furono arrestati e deportati a
Guantanamo. Avevano combattuto nelle milizie e ottenuto la cittadinanza bosniaca.
Quando i contingenti militari occidentali si ritireranno, la neonata
confederazione bosniaca dovrà fare i conti con la sua componente islamista. Per
adesso Mirsad non sorride più, ma dobbiamo sorvegliare i Balcani.