La storia di Zuckerberg ci dice che l’America ha un futuro (l’Europa no)
21 Maggio 2012
I media liberal hanno fatto la grande festa a Facebook per la sua prima giornata di contrattazioni alla borsa di New York. Il più utilizzato social network al mondo – più di 800 milioni i suoi utenti – è sbarcato lo scorso venerdì nella prima borsa mondiale, un battesimo del fuoco che ha riservato all’azienda guidata da Mark Zuckerberg un posto di rango nella classifica delle aziende americane. Alla fine della prima giornata di contrattazioni, Facebook aveva una capitalizzazione di circa 105 mld di dollari, sopra a giganti della produzione come Hewlett-Packard e PepsiCo. Le prestazioni del titolo di per sé non sono state eccezionali. Il prezzo di partenza è stato di 38 dollari e il titolo a fine giornata valeva 38,28 dollari. Un incremento di un misero 0,6%. Tanto per rimanere nel settore tecnologico e per dare qualche dato, nel 2004 Google alla fine della prima giornata di scambi valeva il 18% in più del prezzo di partenza. E questo è nulla se comparato a quel 108% in più che valeva il titolo Linkedin alla fine della prima giornata nel 2011.
Se dunque le prestazioni del titolo Facebook non sono state all’altezza delle aspettative (il Wall Street Journal ha riportato sabato scorso che per tenere in piedi il prezzo di partenza del titolo, la banca americana Morgan Stanley si sarebbe prestata a sostenerlo), la festa della creatura di Zuckerberg – e forse anche di quei milioni di persone che utilizzandolo ogni giorno si sono sentite parte all’impresa -, rimane un giorno da non dimenticare per delle ragioni più profonde, e che si stagliano al di là dei dati borsistici. In quelle celebrazioni al Menlo Park, in California, dove l’ad di Facebook ha dato il colpo di campana per l’inizio delle attività borsistiche del titolo, c’era l’entusiasmo del futuro, il giubilo di una società, quella statunitense, certo ancora in crisi d’ottimismo, forse in double-dip, in piena doppia recessione e certo con grandi sfide da affrontare sul piano globale, una su tutte quella cinese, ma società ancora capace di riconoscere il proprio genio, ancora a proprio agio nel pensare il futuro e ritagliarvisi un proprio spazio e ruolo.
Poco importa che tutto sia nato da un esperimento un po’ fighetto in un dormitorio della Harvard University e che il fondatore si sia preso da qualche giorno la cittadinanza in Svizzera per pagare meno tasse (un altro merito dell’amministrazione di Barack Obama). Ha funzionato. Mark Zuckerberg – e con lui tutti coloro che lo hanno aiutato e che hanno creduto nel progetto – ce l’ha fatta. Questo è quello che conta. In quell’entusiasmo californiano, assolato e giovane – e non stucchevolmente giovanilista – c’era l’America che urlava a sé stessa “ancora una volta sulla breccia, cari amici”. Una grande e gloriosa storia americana, una di quelle in cui (ebbene sì!) da europei, ci piace invischiarci con sguardo sognante all’insù, “un giorno anche noi…”. Perché di storie del genere l’Europa è un bel pezzo che non è più in grado di raccontarle. E non per distrazione giornalistica. Dal Vecchio Continente della spesa pubblica oltre il 50% del Pil, tutta tasse, prebende e cooptazione, è scomparsa la cultura che soggiace alle storie à la Zuckerberg: la promozione dello spirito d’impresa, del successo inteso non come ostentazione ma come remunerazione del proprio sforzo, della propria abnegazione, e sì, della competizione tra le intelligence umane, quel pizzico di darwinismo sociale che l’Europa ha smarrito.
Certo, di ‘storielline’ di europei under quaranta che qualche soldo e qualche soddisfazione se la sono portate a casa esistono. C’è la Rovio, l’impresa che ha creato il famoso Angry Birds, il gioco degli uccelli-proiettili; c’è Soundcloud, sito di condivisione musicale; Spotify, sito di streaming musicale. E poco altro purtroppo. Eric Pfanner, del New York Times, su questa incapacità dell’Europa di fa nascere le belles histoires alla Facebook ha scritto nei giorni scorsi. Sul campo, il giornalista del quotidianone liberal ha intervistato il fondatore di Wisemetrics, Stéphane Allard. Il francese lamentandosi (sport nazionale d’oltralpe) della mancanza di business angel in Europa ha fatto notare l’ovvio: “In Francia il più importante business angel è l’ufficio per i disoccupati”, riferendosi evidentemente al fatto che i nostri sistemi preferiscono pagare le persone per non farle lavorare piuttosto che incentivarle al lavoro. Ci pare una buona rappresentazione della grandi differenze tra le due sponde dell’Atlantico. Da una parte, quella americana, c’è il giovane trent’enne Zuckerberg che, tutto sorriso e sole in faccia, da Menlo Park lancia, con 800 milioni di associati, la sua opa al mondo; dall’altra, quella europea, invece, la triste immagine delle code e del numeretto all’ufficio dei sussidi di disoccupazione. Ecco come si uccide il futuro.