La Storia giudicherà Bush per i meriti nella guerra al terrorismo

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La Storia giudicherà Bush per i meriti nella guerra al terrorismo

04 Ottobre 2008

Negli ultimi 150 anni, la maggior parte dei Presidenti statunitensi eletti in un periodo di guerra -tra tutti Lincoln, Wilson, Roosevelt – hanno accettato (o riconfermato) la propria nomina consapevoli dei conflitti che si profilavano all’orizzonte. Nel caso di George Bush e della guerra al terrore invece, le aggressioni dell’11 settembre sono piovute letteralmente dal cielo.

Difatti, le tre campagne presidenziali tra la fine del crollo del muro di Berlino e l’11 settembre sono tra quelle che in maggior misura hanno mancato di suscitare il dibattito sulla politica estera del Ventesimo secolo. La questione del ruolo di Comandante in Capo, che al momento sembra dominare la campagna presidenziale, pareva non emergere in alcun modo durante la “vacanza dalla storia” della quale abbiamo beneficiato negli anni Novanta.

Nel corso di un’intervista lo scorso lunedì, ho chiesto al Presidente Bush di riflettere com me su tale particolarità dei nostri tempi. Bush ha ricordato il 2001, quando le sue convinzioni lo portavano a credere che la sua Presidenza sarebbe stata incentrata sull’istruzione, sulle riforme, sui tagli alle tasse e soprattutto sulle trasformazioni strategiche necessarie a sostituire una struttura appartenente alla guerra fredda con forze maggiormente mobili, in grado di adattarsi con facilità ai conflitti minori del Ventunesimo secolo. Tuttavia, George W. Bush è diventato il Presidente di un periodo di guerra, e questo è il modo in cui la storia lo ricorderà e lo giudicherà.

Cercando di anticipare la storia, molti non hanno esitato a formulare già un giudizio. L’ultimo libro di Bob Woodward, ad esempio, descrive il Comandante in Capo come eccessivamente freddo e distaccato. Un biografo più benevolmente disposto avrebbe parlato piuttosto di imparzialità.

Nell’ora trascorsa con il Presidente (nella quale si è discusso principalmente di politica estera), il suo spirito equanime si è palesato in ogni considerazione: non si è trattato tuttavia della rassegnazione di un uomo che assiste al tramonto della sua presidenza, bensì di un senso di calma pervasiva, della fiducia in un giudizio ultimo da parte della storia.

È precisamente l’imparzialità che ha permesso a George W. Bush di decidere a favore del surge in Iraq, affrontando la fiera opposizione dell’establishment politico (da parte di entrambe i partiti), quella degli studiosi di politica estera (culminato nell’inutile Iraq Study Group), quella militare (ricostruita nei dettagli da Woodward) ed infine dell’opinione pubblica. La volontà di intraprendere il surge è stata in grado di dare vita, all’interno di uno scenario di guerra, al cambiamento più radicale favorevole agli americani sin dall’estate del 1864.

Una simile decisione richiede fermezza di carattere. Molti hanno sostenuto che è proprio l’eccessivo affidarsi del Presidente alla propria “bussola interiore” che ci ha portati alla guerra in Iraq; tuttavia, è bene ricordare che Bush non prese quella decisione da solo. La maggioranza dell’opinione pubblica era con lui, così come i commentatori politici ed il Congresso. Inoltre, la storia non ha ancora emesso il proprio verdetto sulla guerra in Iraq. Certamente possiamo affermare che sia durata – e costata – molto più di quanto ci si aspettasse inizialmente; tuttavia, resta in discussione se il risultato ad oggi più probabile – ovvero l’aver trasformato uno stato nemico e prepotentemente aggressivo nel cuore del Medio Oriente in un alleato strategico nella guerra al terrore – ben valesse la nostra decisione. Credo che a conti fatti la risposta sarà più favorevole di quanto non lo sarebbe oggi.

Quando ho domandato al Presidente del suo più evidente successo, ovvero l’aver mantenuto sicura l’America per 7 anni – circa 6 anni e mezzo in più di quanto chiunque ritenesse possibile dopo l’11 settembre -, George Bush ha subito suddiviso il merito tra i soldati che hanno tenuto a bada il nemico oltreconfine, e l’insieme delle leggi attuate e il lavoro dell’intelligence che hanno permesso di rafforzare le nostre difese internamente.

Il Presidente ha inoltre fatto riferimento ad alcune misure da lui stesso adottate, tra le quali le strategie di “ascoltare di nascosto il nemico” e “chiedere agli assassini professionisti dei loro progetti”. La CIA ha già reso noto come gli interrogatori di pericolosi terroristi come Khalid Sheik Mohammed hanno costituito una fonte preziosa di informazioni, molto più di qualsiasi altro mezzo impiegato. Parlando delle misure implementate, il Presidente non ha tuttavia fatto riferimento a quest’ultimo episodio per argomentarne l’efficacia, né alla campagna di denigrazione che ne è seguita. Altro esempio di imparzialità.

Ciò che invece il Presidente ha sottolineato con orgoglio è che, oltre a prevenire un secondo attacco, lascerà in eredità al suo successore quel genere di potere e di istituzioni necessari a lottare contro possibili attentati e a proseguire con successo la guerra al terrore. Con la Presidenza di George W. Bush è stato difatti creato il Dipartimento per la Sicureza Nazionale, i servizi di intelligence sono stati riorganizzati ed hanno nuove possibilità di condividere informazioni, mentre il FISA (Foreign Intelligence Surveillance Act) è stato rivisto per garantire maggiore autorità alle intercettazioni su una scala più vasta e moderna.

Sotto questo aspetto, Bush ricorda Truman, il Presidente in grado di dare vita a strutture adeguate ad una nuova era di guerra (il Dipartimento della Difesa, la CIA, l’Agenzia per la Sicurezza Nazionale), espandere i poteri dell’Amministrazione, formulare una nuova dottrina per l’intervento oltreconfine e da ultimo intraprendere un conflitto (in Corea) che – mancando anche in quel caso l’intenzione ufficialmente dichiarata di fare guerra agli Stati Uniti – si rivelò estremamente impopolare.

Fu proprio in seguito a tale impopolarità che Truman terminò la propria Presidenza scoraggiato ed estremamente malvisto. Con il tempo, la storia ha formulato un giudizio differente; senza dubbio, anche la figura di George W. Bush sarà oggetto di una simile rivalutazione. 

© Washington Post

Traduzione Alia K. Nardini