La strada per Washington passa per Baghdad

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La strada per Washington passa per Baghdad

05 Luglio 2007

La via per la Casa Bianca passa per il deserto iracheno. Un sondaggio Gallup ha confermato, in termini statistici molto netti, che la guerra in Iraq sarà, a meno di clamorosi sviluppi, il grande tema all’ordine del giorno delle presidenziali del 2008. La ricerca demoscopica – realizzata in giugno su un campione di 2004 elettori e pubblicata nei giorni scorsi – parla chiaro: per il 70 per cento degli americani, la posizione (presente e passata) dei candidati sull’Iraq è giudicata estremamente o molto importante. Solo per il 7 per cento degli intervistati tale issue è considerata poco significativa nella scelta del candidato alla presidenza. Il sondaggio rivela, inoltre, che gli elettori democratici sono più propensi rispetto a quelli repubblicani a definire la guerra in Iraq una priorità per la futura amministrazione. D’altro canto, quanti tra i Democratici affermano che questo punto è estremamente importante sono anche fortemente contrari alla guerra. Viceversa, coloro che tra i Repubblicani ritengono che l’Iraq sia di fondamentale rilevanza, sono decisamente pro-war. Alla luce del sondaggio, l’istituto Gallup si sofferma sugli atteggiamenti dei due partiti. Ne emerge che i candidati democratici trovano difficoltà nel bilanciare il loro appeal nei confronti dell’ala pacifista del partito con posizioni non troppo spinte, che potrebbero allontanare l’elettorato centrista. Diversa la sfida per i candidati Repubblicani che, da una parte, si rivolgono allo zoccolo duro del partito, ancora favorevole al conflitto; dall’altra, si distanziano dall’amministrazione Bush ritenuta incapace nella gestione del dopo guerra da una fetta crescente di elettori anche del Grand Old Party

Il marcato interesse per l’atteggiamento dei candidati sull’Iraq fa sì che Hillary, Rudy e gli altri candidati alla successione di George W. Bush siano, soprattutto su questo tema, costantemente sotto i riflettori dei media. Diventa così agevole per gli elettori verificare l’evoluzione delle loro posizioni. Per quanto riguarda il partito dell’Asinello, nel 2002, Hillary Clinton e John Edwards hanno dato l’ok, in Senato, all’uso della forza contro Saddam Hussein. Tre anni dopo, Edwards ha dichiarato di essersi sbagliato (I was wrong). “Le motivazioni per muovere guerra all’Iraq”, ha scritto sul Washington Post del 13 novembre 2005, “erano basate su informazioni di intelligence che si sono rivelate del tutto inappropriate. Se l’avessi saputo all’epoca, non avrei votato in favore di questa guerra”. La senatrice di New York è stata, invece, piuttosto restia nel chiedere scusa per il suo voto del 2002. Nel febbraio 2007, tuttavia, parlando al Senato, ha dichiarato che “non avrebbe mai iniziato questa guerra qualora fosse stata lei il presidente”. Clinton ed Edwards si sono entrambi opposti all’aumento delle truppe. La ex First Lady propone un graduale ridispiegamento e successivo ritiro delle forze americane in Iraq. L’ex candidato alla vicepresidenza ha proposto un ritiro entro 18 mesi. Più lineare l’evoluzione sul tema della stella afro-americana Barack Obama. Nel 2002, non era ancora stato eletto al Senato. Dunque, non era a Washington. Ma da senatore dello Stato dell’Illinois, Obama si oppose senza mezzi termini all’invasione dell’Iraq. “Questa guerra”, affermò nell’ottobre del 2002, “darà solo sostegno a chi vuole infiammare il Medio Oriente e alimentare i sentimenti antiamericani nel mondo arabo. Non sono contro ogni guerra. Sono contro le guerre stupide”. Come Cinton ed Edwards, si è opposto all’aumento delle truppe e, come i due colleghi di partito, propone un rientro graduale delle truppe, nella convinzione che il rompicapo iracheno possa essere ormai risolto solo con una “soluzione politica e non militare”.

Sul fronte repubblicano, il frontrunner Rudy Giuliani ha sostenuto la decisione di attaccare l’Iraq. Presa di posizione di cui non si è pentito, ritenendo il conflitto iracheno una tessera del mosaico della guerra al terrorismo. L’ex sindaco di New York ha appoggiato Bush nella sua richiesta di un aumento delle truppe in Iraq. E oggi considera necessario mantenere il livello delle forze USA sul terreno. Intervistato da FOX News, il 14 maggio scorso, ha attaccato duramente i Democratici per la loro proposta di fissare una data del ritiro, dichiarando: “Non ho mai sentito di un esercito che, dovendo ritirarsi, informa il nemico sulla data del ritiro”. John McCain è stato tra i più convinti sostenitori della guerra in Iraq e condivide con il presidente l’idea che non si possa lasciare Baghdad prima che il governo iracheno sia in grado di garantire una vita democratica al Paese. Tuttavia, McCain ha più volte lanciato strali contro l’amministrazione (in particolare nei confronti dell’ex capo del Pentagono, Rumsfeld) per il modo in cui è stato gestito il dopo invasione. Favorevole, ed anzi tra i primi a proporlo, all’aumento delle truppe è contrario al ritiro delle forze militari dall’Iraq. Anche l’ex governatore del Massachusetts, Mitt Romney, è convinto che la guerra fosse giusta, ma non manca di criticare la Casa Bianca per l’imperizia dimostrata dopo la caduta di Saddam Hussein. Ha sostenuto l’aumento delle truppe per la difesa della popolazione civile e ora considera necessario il mantenimento del livello attuale di forze in campo.

I candidati repubblicani concordano, quindi, nel voler mantenere le truppe in Iraq, ma non è escluso che comincino a modificare la propria posizione già da settembre, quando è atteso un rapporto del Comando USA a Baghdad sulla situazione in Iraq. Intanto, un sondaggio commissionato dalla Cnn – a fine giugno – mostra che, anche nel partito dell’Elefante, il sostegno alla guerra vacilla. Ad oggi, il 38 per cento dei repubblicani afferma di essere contro il conflitto e il 42 per cento invoca il ritiro delle truppe. Fino ad ora, Bush ha potuto contare su un appoggio quasi incondizionato del suo partito, ma questa riserva di fiducia sta venendo meno come dimostrato dalle affermazioni del senatore repubblicano Dick Lugar. “La mia opinione”, ha detto Lugar al Senato, il 25 giugno, “è che i costi e i rischi derivati dal proseguire su questa strada sono di gran lunga superiori ai benefici che si potrebbero conseguire”. Ad amplificare questi sentimenti è l’editorialista di The Hill, Dick Morris, autore di un fondo, il 27 giugno, dal significativo titolo: “Se Bush richiamasse le truppe, potrebbe salvare il GOP”. Per Morris, “si è ancora in tempo per salvare i destini del partito Repubblicano alle elezioni del 2008. E’ l’Iraq che sta tirando giù il consenso del presidente, uccidendo le chance del partito”. Il polemista sottolinea che i risultati raggiunti da Bush sul fronte economico non sono affatto male, “se dunque iniziasse a ritirare le truppe, potrebbe recuperare consensi, ridando fiato al suo partito”. D’altra parte, Morris fa notare che anche Cinton e Obama, pur parlando di ritiro, ritengono necessaria la presenza di un numero di soldati sufficiente ad assicurare gli interessi americani in Iraq. Se allora Bush cominciasse a ridurre le forze militari sul terreno iracheno, entro la fine dell’anno, potrebbe “sfilare il tema dell’Iraq dalla competizione elettorale del 2008, salvando il partito da quella che sembra essere una sconfitta annunciata”.

I Democratici, invece, vogliono arrivare alle elezioni presidenziali puntando proprio sull’Iraq. Esemplare lo scivolamento verso sinistra di Hillary Clinton sull’argomento. L’anno scorso, parlando alla conferenza del gruppo liberal Campaign for America’s future fu subissata di fischi, perché ritenuta troppo remissiva sulla guerra. All’evento di quest’anno è andata decisamente meglio, anche perché la ex senatrice, che nel 2006 aveva definito poco intelligente fissare una data per il ritiro delle truppe, stavolta ha addirittura presentato una proposta di legge per “deautorizzare” l’attacco all’Iraq. Hillary ha affermato che farà tutto il possibile per “tirare fuori l’America dalla guerra” e che se “Bush non finirà questa guerra, lo farà lei”. Un’affermazione, quest’ultima, che ha fatto storcere la bocca a Kurt Andersen del settimanale New York Magazine. Per Andersen, è ridicolo che Clinton e gli altri chiedano a Bush di finire la guerra, come se una volta ritirate le truppe si arrivasse automaticamente alla pace. “Il problema”, sottolinea il giornalista, “non è che Bush non vuole ordinare la fine di questo conflitto, ma che arrivati a questo punto non può farlo”. Tuttavia, Andersen ce l’ha anche con i Repubblicani e pone loro una domanda graffiante: “Che cosa avreste detto se un presidente democratico avesse condotto una guerra in modo così disastroso?”. In realtà, però, i candidati del GOP non sembrano farsi troppi scrupoli nel criticare, anche aspramente, l’operato del Commander-in-chief. Con buona pace di Ronald Reagan, che soleva ripetere ai suoi: “Mai parlar male di un membro del partito Repubblicano”.